Nel calcio, vincere, come diceva Boniperti – storico presidente della Juventus -, è l’unica cosa che conta. I tifosi si ricordano di te, ti esaltano e ti vogliono bene. Viceversa, ti basta qualche domenica storta e il genio che eri, si capovolge con epiteti come incapacità e ci fermiamo qui per non scendere nello scurrile.
Corrado Orrico è ricordato dai tanti come l’allenatore che ha fallito con l’Inter. Per molti uno stregone o uno scienziato, per altri un rivoluzionario che in un paese anchilosato al “piuttosto che niente, meglio piuttosto” non poteva che fallire.
Nella sua esperienza nerazzurra ha provato a dare alla Beneamata un’idea di calcio diversa, fondata sul gioco come base per vincere e non solo sulla distruzione di quello altrui. Non tutti l’hanno compresa. Se pensate che Orrico abbia abbassato la testa, vi sbagliate di grosso. Gli anni passano, ma le sue idee, come Don Chisciotte, non le cambia.
Orrico durante l’esperienza all’Inter.
Tanti anni di calcio in provincia, con una mezza esperienza in A con l’Udinese nei primi anni ’80, mentre i riflettori su di lui si accendono grazie all’esperienza alla Lucchese, dove tra il 1989 e il 1991, crea una squadra capace di arrivare ad un passo dalla A: “Se non avessimo avuto gli infortuni di uomini chiave di quella squadra, a quest’ora eravamo dritti in massima serie”. Tutti i giornali ne parlano, si crea il fenomeno “Corrado Orrico”.
Al punto che Ernesto Pellegrini, allora presidente dell’Inter, se ne innamora, vedendo nella sua figura l’alter ego di ciò che è stato l’avvento di Arrigo Sacchi per i cugini del Milan.
Attento alla sua immagine morigerata, Orrico blocca sul nascere le domande sul paragone tra lui e l’omino di Fusignano: “Arrivo all’Inter con uno stipendio da operaio specializzato, per sentirmi in sintonia col partito che ho sempre votato”.
Teorico del calcio a zona, innamorato dell’Honved Budapest e dello squadrone che fu negli anni ’50, con i vari Hidegkuti e Puskas, inizia ad allenare molto presto: a 26 anni, capitano e allenatore della Sarzanese (dal 1966 al ’69), capisce che il calcio visto dalla panchina ha un sapore diverso. Lui si considera un predestinato di questo ruolo e, fatto sta, riesce a regalarsi parecchie soddisfazioni: sei campionati vinti, di cui tre in C e altrettanti nei dilettanti.
Negli anni ’70 idea la “gabbia”. Una struttura creata per ottimizzare l’intensità che il suo gioco richiedeva. Quello che oggi è la routine, Orrico lo aveva studiato e messo alla prova con qualche decennio di anticipo. Un precursore dei tempi, in un paese immobile.
Per Orrico il calcio è fantasia, voglia di sperimentare, studio, non fermarsi mai al successo di oggi, ma avere come obiettivo il miglioramento per divertire e divertirsi. Tutte idee, per quanto semplici all’apparenza, inapplicabili in un paese dove il massimo dell’eversione lo si trova nelle parole di Buffon sui “giovani che devono arare i campi prima di arrivare in Nazionale”.
Lei si ritiene un anticonformista?
“E perché dovrei esserlo? Quando uno si applica nel proprio lavoro, cercando di migliorare. Il conformista è uno che è conforme agli impegni della sua attività. Gli anticonformisti sono quelli che dovrebbero fare un lavoro e non lo fanno, gestendo le situazioni in forma politica all’interno della propria squadra. E quindi lo sono anche mentalmente, giocando un calcio 4-4-2 e tutto finisce lì. Essere conformi alla propria attività significa non accontentarsi mai, allenarsi al meglio, andare oltre le proprie possibilità come tendenza”.
La Lucchese del 1989-’90 festeggia sul prato della Favorita il successo nella Coppa Italia di serie C, vinta superando in finale il Palermo.
Si può ancora inventare nel calcio?
“Coloro i quali hanno una funzione critica verso il calcio non ne capiscono le varianti. In ogni campionato, colgo il calcio come essenza. Non il tiro o il rigore, ben altro. Io noto che questa essenza si arricchisce sempre di più e fa sì che il calcio di oggi sia nettamente diverso rispetto a quello che giocavo io cinquant’anni fa. Il calcio cambia da sé anche contro la volontà di chicchessia. Oggi le squadre più piccole vengono in area e vogliono fare punti, non interessa più nulla di giocare a scacchi, con movimenti studiati e stereotipati. Il calcio di oggi ha scoperto la relatività”.
Scusi, cosa c’entra Einstein?
“E’ un concetto fisico. Einstein aveva dimostrato a suo tempo che spazio e tempo erano un tutt’uno. E la velocità e il tempo sono strettamente legate al mezzo in cui ti trovi. Noi non ce ne accorgiamo, ma la terra ha una velocità abbastanza forte. Se io salgo su un’astronave e viaggio per dieci anni e lei mi aspetta sulla terra, quando io ritorno lei sarà invecchiato di dieci anni, mentre io lo sarò, ma di un terzo rispetto a lei. Il fatto che il tempo è relativo rispetto alla velocità e il calcio non è più stereotipato. Ora è imprevedibile. I giocatori di oggi hanno come principio fondamentale del loro gioco l’imprevedibilità e difatti non corrono in maniera lineare, ma vanno zigzagando per il campo”.
Si dice che lei ha pagato per le sue idee politiche.
“Premesso che non me ne frega niente, ma io non ho idee politiche, ho idee sociali. La politica in Italia non merita nessuna attenzione. Una volta, le persone come me venivano definite anarchici, i quali erano contro lo strapotere, non tanto dello Stato, che quando è giusto deve esserci. Sono i personaggi che fagocitano lo Stato e lo fanno per arricchirsi e per raggiungere i propri scopi. Ma non lo faccio tramite un partito politico”.
Una delle accuse che le muovono i suoi detrattori è la testardaggine.
“Quale testardaggine, al massimo la supponenza. Se sono testardo, lo faccio perché vado avanti con le mie idee, non per compartimenti stagni”.
Il calcio in provincia è più umano?
“Ho fatto la gavetta per lunghi anni, però devo dire che il calcio in provincia è più innovativo della A. Ho visto partite in C o nei Dilettanti, giocate in modo perfetto dal punto di vista tattico, con squadre ben messe in campo. Mentre in A, la gestione del gruppo è più politica, quasi cooperativistica, con i giocatori più forti che influenzano le scelte del club. Non sono contrario ad un dialogo tra allenatore e i big della squadra, basta non miscelare un esplosivo e farlo diventare acqua fresca. A meno che non vuoi fare tutto di testa tua e ne paghi le conseguenze”.
Lei con la Lucchese in quei famosi tre anni, dal 1988 al 1991, ha vinto un campionato di C e una Coppa Italia di categoria. Parlando della sua esperienza con i rossoneri ha lamentato i troppi infortuni che vi hanno impedito di arrivare in A.
“Siamo arrivati quinti a due punti dal quarto posto, più di quello non potevamo fare. Gli infortuni sono stati un vero problema: lo stesso Simonetta che se non si fosse infortunato poteva giocare in A. Lei pensi che le prime sei partite aveva segnato cinque gol. Non si fosse strappato il tendine d’Achille dove sarebbe arrivato? L’anno prima in C ne aveva fatti diciassette. Si è infortunato Monaco, fermo altri tre mesi e mezzo. Per un mese e mezzo Donatelli, un centrocampista molto forte e bravo tecnicamente”.
Se lei fosse arrivato in A con la Lucchese sarebbe cambiata la sua carriera. Ci pensa ogni tanto?
“Ma cosa vuole che me ne freghi. Io conservo il ricordo di un grande calcio e di una squadra che giocava in maniera perfetta. Siamo andati a Verona – e gli scaligeri quell’anno vinsero il campionato – e abbiamo dato loro una lezione di calcio”.
In un’intervista ha detto: “Come calciatore non ero né bravo, né facile da gestire, spero di non dover mai allenare uno come me”. L’ha mai incontrato uno così?
“No, fortunatamente no. Quando c’erano dei giocatori che volevano fare i galli, li mettevo subito in riga, non accettando comportamenti che andassero a danneggiare un gruppo. Da allenatore sono stato da sempre sensibile a questi temi, visto che il nostro ruolo ci impone di tenere a bada uno spogliatoio che, quando va bene, è fatto da venti-venticinque persone. La disciplina, in fondo, non è altro che il rispetto dell’altro. Ma dovevano rispettarla tutti, me compreso, che arrivavo sempre un’ora prima al campo”.
https://youtu.be/L9qZV_8M9Pw
La forza di quella Lucchese fu la costruzione di una rosa composta per la maggior parte, da elementi che l’anno prima facevano la panchina in C.
“Alcuni sì, ma quello non è un merito. Ci sono uomini che davanti ad un’organizzazione incerta e a dei compromessi nel gruppo, tendono a svilirsi. Mentre ce ne sono altri che, posti dinanzi ad un quadro netto e chiaro e con un obiettivo comune da perseguire, riescono a dare più di quel che potrebbero in condizioni normali”.
Come mai ha fallito con l’Inter ?
“Se essere quinti in classifica con una partita in meno, significa fallire, allora mettiamola come dice lei: ho fallito. Ho deciso di andarmene perché c’erano situazioni che non mi piacevano. Sono una persona che ha ancora dei princìpi solidi a cui si áncora per andare avanti”.
– continua –