Fin da subito ho avuto l’impressione di conoscerlo ed ora mi sto scervellando nel tentativo di ricordare chi è. È quella sensazione che ti prende quando trovi di fronte casualmente, una persona con cui hai già parlato e non ricordi dove né perché; magari incontrata in un altro ambito e sopratutto conosciuta sotto altri panni. Pensi, ripensi e non ricordi…
Ora ascolto l’appello di questa nuova classe di terza industriale annata 1970-‘71 che il professore di Metallurgia sta facendo, cercando di capire dal nome e dalla provenienza, chi sia quel ragazzo affabile con viso simpatico e sorridente, seduto dietro al banco a due metri da me. Ho incrociato più volte quei suoi occhi vivissimi dietro agli occhialini alla John Lennon che gli conferiscono un’aria intellettuale unita allo stile sportivo nell’indossare disinvolto una giacca con toppe di pelle sui gomiti, sopra la camicia bianca a colletto aperto senza cravatta.
Lui sembra non conoscermi per niente, mentre, diversamente da me, conosce quasi tutti gli altri nostri compagni di questo triennio metallurgico che mi appresto ad iniziare, dopo un biennio generico che ho frequentato nella sede staccata dell’Istituto Rossi a Thiene da dove provengo. Sono spaesato; non conosco nessuno di questa classe perché nessuno dei miei amici precedenti ha scelto la strada in questa materia.
Sto pensando che forse ho sbagliato indirizzo facendomi condizionare da mio cugino Beppino da Vicenza che lavora all’Acciaieria Valbruna, tanto che un senso di solitudine mi sta prendendo. È solo un attimo di leggero sconforto perché, in fin dei conti, quelli che ho di fronte sono ragazzi della mia età dai visi puliti che emanano tanta allegria, voglia di fare, serenità e sono certo che mi farò accettare con i miei pregi e difetti; sarà questione di un breve rodaggio integrarmi con i nuovi compagni. Questo primo giorno di scuola in una Vicenza del tutto misteriosa e affascinante è stato, per me diciassettenne, particolarmente emozionante fin dal primo arrivo con il treno in stazione, catapultato in un Campo Marzio ombreggiato da platani giganteschi e secolari.
Ho seguito in processione chiassosa i compagni che hanno scelto altre specializzazioni dell’I.T.I.S. Alessandro Rossi, scortati sapientemente dai ragazzi più vecchi che ci fanno pure da ciceroni, essendo ormai grandi esperti della città. Per noi, nuovi alla vita del grande centro, invece, è tutta una novità; dalla grande stazione ferroviaria caotica, al via vai dei tram, per non parlare del lunghissimo Corso Andrea Palladio, con quel frenetico incedere di persone affaccendate che si spostano senza meta apparente, come in un formicaio, tra corso principale e vicoli laterali, incorniciati da bei negozi e locali accattivanti.
In questo momento devo riporre di più attenzione, non posso distrarmi e debbo capire bene come si chiama l’anonimo compagno, perché ormai l’appello del professor Luigi Giordano è quasi concluso. “Rizzi Angelo!” scandisce l’insegnante, mentre adesso osservo il ragazzo alzarsi, guardarsi attorno, sorridere, declamare la sua residenza e risedersi. Per un attimo resto perplesso perché il nome non mi dice niente e non riesco a collegare alcun pensiero, anche se provo una sensazione dolceamara di averlo, senza ombra di dubbio, già conosciuto. Poi, una visione istantanea mi passa nella mente come la pellicola di un film e lo rivedo nella sua casacca da calcio bianca con banda trasversale blu, fascia di capitano e numero 6 sulla schiena, gridare deciso “Arbitrooo! Rigoree! Rigoree!”. Ecco, ora ricordo benissimo dove l’ho incontrato…
Faceva da eco a quel suo grido la gente assiepata lungo la recinzione del terreno di gioco che stava dietro l’imponente chiesa di Castelnovo di Isola Vicentina. Era numeroso il pubblico di tutte le età uscito da Messa per tifare i ragazzi del paese che davano contesa ai foresti in quella partita del campionato C.S.I. Arcobaleno 1967-‘68. A noi cittadini di Thiene, quel paesetto, inoltrato nella splendida campagna, dava quasi il senso di esserci calati realmente in un sabato del villaggio di antica memoria. Eravamo capitati, invece, una bella domenica d’autunno, dolcemente odorosa di vapori del mosto, in un campo da calcio parrocchiale, immerso in un mare di vitigni di Cabernet e Merlot ben curati. Una domenica consueta, scandita dai suoi ritmi di giornata di riposo dedicata ai rinnovati riti settimanali: la Santa Messa quale momento di aggregazione spirituale, la passione sportiva con la partita di calcio e l’incontro nel bar del patronato o della piazza per socializzare.
Ora contro di noi dell’Audace, del lontano borgo thienese della Ca’ Pajella, l’arbitro aveva decretato il rigore. Il nostro terzino sinistro di Carrè, Egidio, aveva steso la veloce ala destra avversaria dell’A.C. Leodari che stava puntando dritta a rete. Rigore sacrosanto! Nessuna protesta da parte nostra mentre ora , a pochi minuti dal termine della gara, loro potevano pareggiare il goal segnato dal nostro bomber nel primo tempo. Il tenace capitano avversario si avvicinò deciso con passo marziale, palla alla mano, incitato dai compagni di squadra a calciare il rigore: “Tiralo ben, Pancio!”, “Forza, Pancio, non sbagliarlo!” Io, mezzala sinistra e capitano rivale, misi in atto la tattica psicologica che il nostro allenatore Franco De Santis (Baccalà) ci aveva consigliato nel caso di penalty avversi. Mi accostai a Pancio e, senza farmi sentire dall’arbitro, cominciai una manfrina che non era nel mio carattere, esordendo: “Varda che te tiri fora!”, “Varda che te tiri alto!”, “ Se te lo tiri a destra el te lo ciapa!” Lui, imperterrito, come sotto ipnosi, neanche mi badava, mentre sistemava con cura il pallone sul dischetto che aveva spianato col destro con cui andava a calciare. Il nostro portiere Battista (Batman), concentrato sulla sfera, indagava nervosamente in viso il rigorista avversario, cercando di capire dove avrebbe dovuto tuffarsi. Io ricominciai a praticare, poco convinto, la teoria sottile del nostro mister Baccalà : “Sta tento al scavaxo!”, “Xe mejo se lo fai tirare a n’altro!”.
Arrestai la tiritera solo quando vidi partire Pancio nella breve rincorsa, per poi rimanere sbalordito seguendo la perfetta traiettoria del pallone che andava ad insaccarsi esattamente all’incrocio dei pali alla sinistra di Batman che neanche si muoveva. Non erano certamente state tutte le coordinate che gli avevo spiattellato nel tentativo di distrarlo dargli modo casualmente di ottenere una rete del genere, ma la chiara abilità di piedi buoni, la sua concentrazione e determinazione. Se avessi potuto mi sarei nascosto! Rientrando negli spogliatoi trovai Angelo attorniato dai compagni e dirigenti che lo festeggiavano e, incrociando i suoi occhi, non potei fare a meno di stringerli la mano e scusarmi del mio comportamento, facendogli i complimenti. Onore al merito!
Ecco, ora capisco questa mia sensazione agrodolce nel ricordo di quel viso: era l’episodio vissuto che la determinava! “Che cosa faccio ora?” penso tra me: “Mi faccio riconoscere?”. Sono logicamente titubante ed imbarazzato. Arriva l’intervallo della ricreazione ed i compagni stanno chiacchierando tra loro in piccoli crocchi, perché più o meno si conoscono tutti avendo frequentato il biennio nello stesso istituto, anche se in sezioni diverse, mentre io sono solitario in disparte. Lascio ogni indugio, prendo coraggio, mi avvicino deciso ad Angelo che sta parlando con alcuni ragazzi ed in un momento di pausa, chiedo timidamente: “Scusate se mi intrometto… ma tu sei per caso Pancio da Castelnovo?” e lui, perplesso: “Si, al me paese, son conosù dai me amici cusì” e, garbatamente sorpreso: “Ma… come fai a saverlo?” e poi, pensieroso: “Scusa la domanda… ma ti chi sito?” Allora io, con un largo sorriso, gli rispondo sereno, stemperando il momento catodico: “Te sembrerà strano Angelo, ma anche mi son un amico conosù a Castelnovo e ora te racconto parchè: …nel 1967, ‘na bea domenica d’autunno, dolzemente inprofumà dai vapori del mosto…”
Giuseppe (Joe) Bonato