La Battaglia di Wembley
Mag 2, 2022

Il football è uno sport che arriva da lontano. Quando a Sheffield si fondò il primo club della storia del calcio, l’Italia doveva ancora diventare una monarchia e in Russia c’era la servitù della gleba. Da allora, il pallone ha attraversato la società umana e l’ha condizionata. E ci sono stati momenti, nella storia del Novecento, che si spiegano meglio con un goal che con un trattato universitario. Come il 1953, quando l’Inghilterra sfidò il resto d’Europa in quella che viene ricordata come la Battaglia di Wembley.

Contestualizziamo. Immediato Dopoguerra. La Germania è divisa in due, e paga i debiti di guerra; da Stettino a Trieste corre quella che Winston Churchill, Primo Ministro dell’Impero Britannico, ha chiamato cortina di ferro. Winston Churchill, oltre a essere una delle personalità più influenti della politica novecentesca, è una figura di spicco della letteratura: ha vinto il Nobel per i suoi scritti proprio nel 1953. Quello che di noi disse: “Gli italiani perdono partite di calcio come fossero guerre, e le guerre come fossero partite di calcio”.

Inghilterra-Resto d’Europa, nel 1953 l’Italia schiera un solo calciatore, Boniperti, e lui segna due gol

Un vero e proprio conoscitore di popoli, il degno conducente di un impero multirazziale che era ormai prossimo al dissolvimento. Stalin è morto da poco, e si respira un’aria un po’ più leggera. Il mondo occidentale – come scrive Federico Sessolo nel suo articolo pubblicato su “Numero Sette” – spera in una possibile distensione con l’Unione Sovietica; alcuni Paesi del Patto di Varsavia vorrebbero delle vere elezioni politiche sotto l’egida comunista. Siamo a meno di ventisette mesi dai fatti d’Ungheria, dall’invasione di Budapest che pose fine alla favola dell’URSS liberatrice democratica dei popoli.

Il capitano inglese Billy Wright presenta la squadra a Lord Montgomery 

Che cos’è il calcio, nel 1953? Beh, il calcio è ancora molta potenza, e poco atto. Per dodici anni non ci sono stati i Mondiali; dopo il 1938, quando Pozzo bissò il trionfo con l’Italia, di mondiale c’è stata solo la guerra. Nel 1950 si è giocato in Brasile. Noi ci siamo andati, ma abbiamo giocato male. I giocatori erano così sconvolti dal disastro aereo di Superga da preferire un lungo viaggio in mare alle comodità rischiose dell’aereo. I problemi erano davvero altri.

Il saluto anche agli avversari

Secondo il quotidiano ispanofono El Pais, la tragedia di Superga ha cambiato per sempre la storia del calcio. Se il Grande Torino – che componeva i dieci undicesini della nazionale italiana – non fosse scomparso tragicamente, l’Italia si sarebbe ritrovata a vincere il suo terzo Mondiale e avrebbe spinto i sudamericani a giocare all’italiana. Niente più samba e saudade, niente Garrincha, forse niente Pelè. Nel 1953 il Brasile sta per scrivere la storia dello sport. Tra cinque anni tutto il mondo ammirerà le prodezze del giovane Pelé, che nel nordico Mondiale di Svezia indosserà la maglia numero 10 dandole il significato mistico che ancora oggi ha nel calcio. Siamo alla teogonia del calcio. Questi fatti, questi gesti appena accennati, hanno il sapore eroico della fondazione.

Lo schieramento del Resto d’Europa

Nel 1953 ci sono almeno due buone selezioni in Europa. La prima è l’Ungheria di Puskás, che viene spesso invitata in giro per le grandi città a dispensare lezioni divine di calcio. Il pallone è infatti una delle ultime porosità di una frontiera (quella tra comunismo e capitalismo) che sta per chiudersi quasi definitivamente. L’altra è la Germania, quella dalla parte di Bonn, che vincerà il Mondiale del 1954 in Svizzera.

Nelle isole britanniche il calcio è nato. Persi nelle nebbie di metà Ottocento, eroi senza volto hanno preso decisioni fondamentali che hanno reso il calcio quello che è oggi. Il fuorigioco, l’uso dei piedi, la traversa; tutto è nato in Inghilterra. Gli Inglesi sanno di essere i migliori. Nel calcio sono stati Prometeo. Hanno portato il fuoco agli altri, letteralmente. Fa parte della loro missione civilizzatrice.

Una fase di gioco dell’altrettanta famosa partita del 1953 tra l’Inghilterra e l’Ungheria

Quando vengono organizzati i primi Mondiali, l’Inghilterra rifiuta sdegnosamente tutti gli inviti. Per oltre vent’anni la Football Association non si abbassa al livello delle altre federazioni. A Londra, il calcio è nato come sport nobiliare, nei college universitari. I giovani della upper class sentono di non avere nulla da spartire con i sudamericani, che sono proletari emigrati da un continente impoverito, o con gli altri europei, che giocano solamente per imitazione. Nel 1930, in Uruguay, l’Inghilterra decide di non partecipare, e di fatto prova a delegittimare il Mondiale come istituzione. Giocare senza chi ha inventato il gioco è come provare ad accendere un fuoco senza il consenso di Prometeo.

Sono poche le occasioni in cui la selezione inglese si concede il lusso di giocare delle partite con delle selezioni avversarie. Molto spesso, infatti, sono le squadre di club a compiere delle tournée in giro per il mondo. Gli inglesi sono avanti di vent’anni, nel calcio come nell’economia. Colonizzano il mondo a suon di carbone, petrolio, armi e pallone. Il nostro club più antico, il Genoa, viene fondato da marinai inglesi: è a tutti gli effetti una colonia, una enclave sportiva. Da qui, da questo atteggiamento da madrepatria, deriva il senso di superiorità degli inglesi: sono fuori scala perché il gioco l’hanno inventato. Prometeo non si abbassa al livello degli uomini.

Qualcuno, prima o poi, dovrà ripensare la guerra fredda dal punto di vista calcistico. Perché ci sono partite che, in novanta minuti, racchiudono interi trattati di storia contemporanea. Nel 1953, la Football Association decide di mettere le cose nero su bianco. Gli inglesi vogliono dimostrare a tutti di essere i più forti del mondo, e invitano le varie federazioni europee a mettere su una selezione internazionale da portare a Wembley. Sì, Wembley. Quale arena, se non la cattedrale del calcio? Wembley è ciò che per la Chiesa Cattolica è rappresentato da San Pietro: la realizzazione architettonica di una dottrina religiosa.

Insomma, a Londra arriva una vera e propria selezione europea. Con spocchioso senso di superiorità, gli Inglesi intendono battere tutti in una volta sola, dopo che per vent’anni hanno vissuto nel loro splendido isolamento. La selezione europea è qualcosa di tremendamente eclettico, che può funzionare solamente perché a quel tempo si gioca un calcio tatticamente molto semplice. Lo schema diffuso un po’ ovunque è il Sistema di Chapman; in Italia si usa il Metodo di Pozzo, ma non è un problema perché c’è un solo giocatore azzurro, tale Giampiero Boniperti, attaccante e bandiera universale della Juventus. In porta, invece, c’è uno dei portieri che per molti anni fu considerato il più forte: l’austriaco Walter Zeman che subirà un gol lasciando che la palla gli passi in mezzo alle gambe. La selezione arriva a Wembley e ci sono davvero dei nomi ormai perduti. Altri faranno più fortuna in momenti successivi della loro vita.

Il portiere Beara (subentrato a Zeman, uscito per infortunio) in presa alta a Wembley

A Wembley ci sono oltre 100mila spettatori. Numeri impensabili in Italia e in quasi tutta l’Europa. Numeri da, da Maracanã, apocalissi calcistica, per quegli anni. La selezione europea gioca con una casacca azzurra che ovviamente, nei pochi televisori disponibili in Francia e Inghilterra, si stinge di un grigio anonimo. L’Inghilterra ha un disperato bisogno di vincere, per scacciare i propri fantasmi; ma la selezione europea è fortissima. Boniperti segna una doppietta storica, e ancor oggi è l’unico italiano ad averla realizzata al tempio del calcio. Gli europei vanno in vantaggio per 4-3, e sono rimontati grazie a una condotta arbitrale piuttosto discutibile. Dopo questo pareggio, gli inglesi aprono gli occhi: il calcio si sta evolvendo, gli europei giocano già con una marcia in più. Non hanno più alcun vantaggio tattico: è iniziato il decolonialismo del pallone.

Il portiere Walter Zeman

La Battaglia di Wembley finì 4-4. L’arbitro, che era un gallese, si inventò un rigore per far pareggiare i padroni di casa. Era un pareggio che scontentava tutti, e illudeva i cronisti d’Inghilterra. Lo stesso Boniperti ha ricordato che alla fine della partita la federazione inglese regalò a tutti i giocatori un orologio con inciso, sul quadrante, le parole “England-The Rest”. L’Europa non meritava neppure di essere menzionata. Un ultimo atto di ribalderia alla fine del duello. Vera esemplificazione del termine inglese posh.

Quella lontana partita tra Inghilterra ed Europa è stata rapidamente dimenticata. Di Boniperti e Zeman con la stessa estemporanea divisa non si ricorda quasi nessuno. Eppure la Battaglia di Wembley ci ha detto molte cose, oltre al risultato finale. Ci ha fatto capire una qualità importante del carattere inglese: ribelle, libero come il mare che bagna l’arcipelago britannico; insofferente verso l’Europa, e disperatamente alla ricerca di una propria identità post-imperiale. Ad analizzare la Gran Bretagna di Theresa May e di Boris Johnson con la doppietta di Boniperti si possono capire tante cose.

L’asso magiaro Ferenc Puskás nel tempio di Wembley

Allo stesso tempo, però, dell’Europa ci dice altrettanto. Nel 1953, ancora in piena stalinizzazione dell’URSS, diversi giocatori dell’Europa dell’Est riuscirono a raggiungere l’Inghilterra. Il calcio dimostrava già, in nuce, di essere un movimento globale, insofferente alle frontiere. Negli anni Cinquanta, poi, il concetto di Europa era ancora qualcosa di élitario. Era per pochi, per De Gasperi, che in quell’anno morì; per Schuman, considerato oggi il padre dell’UE; per Spaak, lo zio della ben più famosa Catherine, che sperava di trasformare il suo Belgio nel cuore pulsante del continente milleduecento anni dopo Aquisgrana e Carlo Magno. Schierare undici giocatori europei era una cosa non da poco, e pareggiare contro la Nazione che il calcio l’aveva inventato non ebbe prezzo.

La Battaglia di Wembley non avrà mai il posto che merita nel calcio. Nella già lunga lista di trofei e partite memorabili che dobbiamo mandare a memoria, nessuno ha tempo di ricordare un 4-4 piuttosto falsato, che non confermò nulla e nascose molte altre cose. Ma se abbiamo tirato fuori questa partita dalla polvere degli archivi non è per puro godimento da bibliotecari. O almeno non solo per quello. Questa partita ci serve per dimostrare come molto spesso il calcio sia lo specchio di una nazione, talvolta di un momento storico complesso. L’Inghilterra sfidò l’Europa nel 1953, proprio quando l’Impero Britannico perdeva i suoi pezzi e gli statisti del continente ragionavano sull’Unione Europea. Per carità, si tratta solo di un pallone buttato in mezzo al fango, ma quel 4-4 nella Cattedrale di Wembley è una metafora più potente di un trattato di storia.

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