A sessantotto anni è piacevole guardarsi alle spalle e raccontarsi. Ricordare una carriera da calciatore con sette anni spesi sui campi della serie A, sempre con la maglia dell’Ascoli. Donato Anzivino, molisano di origine e vastese d’adozione, apre l’album dei ricordi e inizia il suo racconto. Da Campomarino fino a Zico.
Anzivino, come nasce la carriera calcistica?
«Sulle strade di Campomarino, nella frazione Nuova Cliternia. Poi, il Campomarino, in Terza categoria, e l’Ururi, in Seconda. Da lì a Vasto, nel 1970. Avevo 15 anni. Il primo anno feci la Juniores. Poi, la prima squadra con esordio a Lecce, in serie C. Giammarinaro mi ha indietreggiato da centrocampista a difensore di fascia, destra o sinistra. Un’amichevole giocata contro l’Ascoli mi fece entrare nel mirino del club bianconero. E così nel 1974 eccomi ad Ascoli. C’era Mazzone allenatore, ma io non giocai mai perché ero alle prese con la pubalgia».
Dieci anni ad Ascoli.
«Di cui sette in serie A. Ero un marcatore, ma mi piaceva andare avanti. Ricordo il debutto in serie A, contro l’Inter di Facchetti, era il 18 aprile 1976. Vincemmo 2-0. Ma in quella stagione retrocedemmo in B. Ripartimmo con Riccomini, io ero militare ma riuscii comunque a guadagnarmi la maglia da titolare. E a giocare con continuità. Nella stagione 1977-78 l’anno del record con l’Ascoli di Renna che vinse il campionato di B a mani basse».
Ad Ascoli fino al 1984.
«Sì, poi andai via. Mi voleva il Cesena, ma accettai Campobasso viste le mie origini molisane e perché volevo riavvicinarmi a Vasto dove avevo messo su famiglia».
A Campobasso l’incontro con Tord Grip.
«Era un allenatore svedese arrivato in Italia con l’etichetta di mentore di Sven Goran Eriksson. Facemmo la zona integrale, uno spettacolo. Sembrava Dio sceso in terra. Ed è in quegli anni che rimasi folgorato da quel sistema di gioco innovativo che ha caratterizzato anche la mia carriera da allenatore».
Terzino marcatore vecchio stampo?
«Macché, mi piaceva spingere. E per due anni entrai nel top 11 della serie A. Ho 150 partite in A».
Ad Ascoli erano gli anni del compianto Costantino Rozzi.
«Mitico e ineguagliabile. La salvezza molte volte dipendeva da lui, da come riusciva a motivare e a stimolare lo spogliatoio. Ricordo una settimana, prima di una trasferta a Torino contro la Juve, era il 1983. Cominciò a dire che avremmo vinto, noi lo guardavamo storto. E lui insisteva, fino a essere noioso. E quella domenica vincemmo 3-2 a Torino con il centesimo gol in serie A di Anastasi. Rozzi quando parlava sapeva toccare i tasti giusti. Un gran motivatore».
Ricorda quanto fu pagato per passare dalla Pro Vasto all’Ascoli?
«Trenta milioni di vecchie lire più il passaggio in biancorosso di Cappotti».
Dieci anni ad Ascoli, tanti.
«Mi voleva il Torino, alla fine degli anni Settanta. Piacevo a Radice. Ma all’epoca non c’erano procuratori. E se arrivavano richieste i giocatori nemmeno lo venivano a sapere».
Qual è il giocatore più forte con cui ha giocato?
«Anastasi prima di tutti. Poi, Moro e Scanziani. Per non parlare di Novellino: quando era in giornata non lo fermava nessuno. E poi Pasinato, il mediano. Il gol che ha fatto il granata Bruno Perez alla Juve lui lo faceva abitualmente. Una forza della natura».
A quei tempi circolavano tanti campioni in serie A.
«Bettega e Laudrup erano i più difficili da marcare. Bettega non riuscivi mai ad anticiparlo; Laudrup, invece, aveva una tecnica sopraffina e quando ti puntava non avevi scampo. E poi ho marcato Gianni Rivera, un onore visto che all’epoca era il re del calcio italiano».
Zico gli fece i complimenti.
«Disse che ero stato l’unico a marcarlo, bene, senza picchiarlo. Un bel complimento. Avevo una dote naturale: la scelta di tempo e nell’uno contro uno difficilmente mi facevo saltare».
Il primo ingaggio in A?
«Ero un ragazzino, 400mila lire al mese».
Scontri duri?
«Con Salvatore Bagni, entrate decise ogni volta che ci affrontavamo. Ma nessuno dei due si lamentava».
I rapporti con i tecnici?
«Qualche discussione con Mazzone, ma non liti. Con lui si cominciava a vedere le prime strutture di gioco, le prime geometrie. Ho un buon ricordo di Renna, Fabbri e Grip».
L’anno più bello in serie A?
«Quello con Fabbri, 1979-80, quinto posto. Quasi in coppa Uefa. C’era la finale di coppa Italia Torino-Roma: se avesse vinto il Torino noi saremmo finiti in Europa. Peccato!».
Differenze tra il calcio degli anni Ottanta e quello attuale?
«Diverso, sembra quasi un altro calcio. A partire dai sistemi di allenamento. Di conseguenza, anche gioco e ritmi. All’epoca si marcava a uomo. E non c’erano le televisioni…».
La figurina Panini di Anzivino ha fatto emozionare Gigi Buffon…
«È vero, nel suo libro ha parlato di questa cosa. Era un bambino, ha scritto, e il ricordo della figurina che ancora oggi lo emoziona è quella di Anzivino e Nicolini».
Vi siete mai sentiti?
«Certo, è accaduto l’ultima volta che l’Italia ha giocato a Pescara, nel 2011. Andai a vedere un allenamento e lasciai un bigliettino a uno steward da consegnare a Buffon: scrissi il mio nome e il numero del telefonino. Pensavo che non sarebbe mai arrivato…».
E, invece, …
«Il giorno dopo, quello della partita, all’ora di pranza mi squilla il telefonino: “Ciao Donato, sono Buffon…” Pazzesco, abbiamo parlato. E mi ha confermato la storia della figurina. Mi disse: “Tu per me sei un mito!”. Gli ho detto di non esagerare e lui comunque mi ha fatto avere due biglietti per la partita della sera. Un campione (anche) di umanità».
Fonte: Rocco Coletti, “Il Centro”