Unire in un solo gesto Enzo Jannacci, Peppino Prisco, Ugo Tognazzi e Kevin Spacey è quasi impossibile, ma José Mourinho è un felino, quindi capace di tutto. Ecco il suo orecchio teso a sentire i cori dei tifosi juventini zittiti dal ribaltamento della partita, farsi sintesi d’ironia, riscatto e risposta, e non offesa come si è detto e scritto, un gesto perfetto col quale ha unito tutto il mondo anti-juventino da Buckingham Palace – escluso il Sun che ha titolato “No class” – al San Paolo – esclusa la Rai che ha provato a far passare il suo gesto come offensivo. Mourinho è da sempre una nave pirata, un capitano di ventura che si porta dietro i tifosi che lascia – persino a Madrid, esclusi Jorge Valdano e Javier Marías ci sono delle vedove da andare a ritrovar –, un principe libero e ben pagato che produce spettacolo, non è solo un allenatore e chi lo ingaggia prende un pacchetto eterogeneo che è fatto di accolli e confini, faide e rivincite, territori inviolabili e zone franche da misurarsi per ogni campo dall’Equatore al Polo Nord.
In questo caos di scontri poi c’è l’efficacia della sua grammatica di corpo e azioni, cui seguono conferenze stampa alla Carmelo Bene, è un uomo di teatro capace di allacci tra mondi lontanissimi, e prima di tutto questo è uno stratega anche del campo, ha vinto la partita contro la Juventus con i cambi e le palle alte, con le torri e con una tenuta psicologica enorme, avendo una rosa inferiore a quella di Massimiliano Allegri. Mourinho da sempre sa che il calcio si spalma ovunque, che conta tutto, e per questo si è fatto pirandelliano, shakespeariano e poi benaventiano, partendo da una scuola di introversione pessoiana, con una riscrittura occidentalissima di David Mamet, immergendosi nelle culture dei paesi dove allena. Mourinho ha capito che gli stadi sono gli ultimi luoghi dei conflitti – sociale, culturale, psicologico – e si è messo ad esercitarli, alimentarli talvolta generarli; per questo piace, per questo scavalca i settori che dividono gli stadi e parla anche agli altri, soprattutto quando si tratta della Juventus.
Per la squadra e soprattutto per i suoi tifosi è uno spettro, quello del dominio interista, per tutti gli altri è la possibilità di riscatto davanti allo strapotere di una squadra forte e arrogante che non vuole sentire ragioni, in ogni ambito, e che se perde non vuole che il fatto venga sottolineato. Per questo può vincere all’Old Trafford – giocando abbastanza bene – e cantare con i suoi tifosi contro Mourinho (offese ingiustificate alle quali ha risposto con le tre dita che ricordavano il suo triplete) mentre lui ricordando Rudyard Kipling va in conferenza stampa ad elogiarne la linea difensiva.
Quando invece si ribalta la vittoria, davanti al suo gesto di sentire un po’ di più quei cori d’un colpo spariti, ecco correre Bonucci a fermarlo – lo stesso calciatore che perno anche della Nazionale che non ha mai spiegato come mai vede la partita in curva con alcuni pregiudicati – e Ashley Young opporsi come se ci fosse un terzo tempo, ma differente.
Più della sconfitta ha fatto il gesto, più dei gol, l’irrisione, che non ha colpe, non ha offese, ma tocca un nervo scoperto: quello della parte juventina così abituata a vincere da costruirsi un sistema prima, e uno strapotere dopo, e quando le cose non filano lisce bisogna continuare a subire. Per questo, quando al fischio finale, Mourinho tira fuori dalla sua valigia d’attore e pirata il gesto dell’orecchio, si scatena il putiferio, giornalisti come Pigi Battista lo chiamano “miserabile cialtrone”, scrittori come Sandro Veronesi si avventurano in tweet ambigui: “Mourinho non è un uomo”, quando basterebbe essere Chiellini e minimizzare.
Il problema è che Mourinho rappresenta tutto quello che vorrebbero essere e non sono, cioè il coraggio dell’eversore, la capacità di affrontare il mondo a muso duro, fuori dal politicamente corretto, usando ogni mezzo per vincere, persino prevaricando, e non a caso l’unico personaggio letterario – filmico che lo ricordava, Frank J. Underwood della serie “House of Cards”, è stato cancellato e prima hanno cancellato il suo attore, Kevin Spacey.
Se non si legge l’eversione – costruita – se non si assimila Macbeth e se non si capisce che Mourinho ha una biografia diversa dagli altri comincia come traduttore, e a lungo non viene preso sul serio, conservando la voglia di emergere, vivendo di avversità, non conosce dolcezze se non nelle notti delle vittorie, per poi riprendere a combattere. Perciò piace alle curve, perché come e più di John Ford dichiara guerra e difende il confine. Perciò unisce trasversalmente le tifoserie in una notte, alimentando meme e sfottò, e la sua fotografia diventa virale, come lo era stato prima la mano che contava i tre trionfi, il dito che entrava nell’occhio del povero Tito Villanova, e prima i polsi incrociati a denunciare il sistema come anni prima aveva fatto in piazza e non su un campo, con manette vere, Gianmaria Volonté arrestato in una protesta dei lavoratori della Coca-Cola. Perciò dai bar di Napoli a quelli di Milano le conversazioni erano monopolizzate, in una riscoperta della elementarità di gesti fatti nei momenti giusti. Non potendo urlare ed essendo solo Mourinho poteva avere un solo gesto a disposizione, una sola possibilità che da uomo di spettacolo sapeva che non potevano essere di nuovo le tre dita, così ecco l’orecchio, teso nel silenzio dell’Allianz Stadium.
Mourinho è il primo allenatore che non giocando continua ad usare il corpo, quasi che la tattica non bastasse, perché avendo avuto una carriera breve da calciatore si sente in debito col campo, e infatti compie gesti da calciatore (vengono in mente tra i tanti quelli di Totti), esponendosi come nessun altro allenatore, con trovate fulminanti che compiacciono e uniscono tifosi lontani partendo da quelli della squadra che allena.
Il Times dice: «The special comeback», il Telegraph: «It’s Mourinho time», in realtà è sempre stato presente aveva solo bisogno di grandi teatri e avversità, partite e situazioni al limite. La sua è una stagione altalenante, al Manchester United, con più prosa che poesia, più pareggi che vittorie, ma con ancora gesti memorabili.
Marco Ciriello
Novembre 2018, “Il Mattino”