La vena sfottente di Franco Zuccalà aiuta a tenersi a distanza dall’accidia delle idee attinte all’altrui estro e dai concetti totalizzanti. Esistono però pesi informativi diversi. Un conto è mostrare l’occhio nero di Gullit, campione d’ebano del Milan aggredito in un derby da Passarella, e un altro è parlare coi capi di Stato di questioni d’interesse mondiale.
In tal caso i trucchi del mestiere per lei restano immutati?
“Avete posto l’accento sui rischi del mestiere di bordacampista. Adesso affrontate la questione dei trucchi del mestiere del giornalista a tutto tondo. Abituato quindi a viaggiare e a confrontarsi con realtà agli antipodi tra loro. I pesi informativi hanno in effetti portate spesso diverse, ma i trucchi del mestiere sono gli stessi. Io, come giornalista prima della carta stampata e poi del piccolo schermo, ho avuto il privilegio di visitare ed esplorare i cinque angoli del globo intervistando personaggi di assoluto spicco. Henry Kissinger su tutti. Quando mi trovavo a Johannesburg riuscii ad avvicinare una delle guardie del corpo di Nelson Mandela. Era l’unico bianco lì in mezzo. Un siciliano. Come me. Ruppi il ghiaccio parlando di arancini e altre prelibatezze della nostra terra. Lui mi diede l’imbeccata, consigliando di fare riferimento, da italiano, all’imminente incontro del presidente del Sud Africa con Giovanni Paolo II. Forse esagerai. Mandela mi prese per un amico, o conoscente, del Papa. E vuotò il sacco: parlò nei minimi dettagi della ripartizione tra bianchi e neri”.
Il senso di appartenenza, rappresentato dalla sicilianità lontana dai confini domestici, può quindi aiutare a raggiungere traguardi inattesi ed etici. Tuttavia, proprio a Catania, sui banchi di scuola, lei ha conosciuto un concittadino anch’egli ironico, ma più intellettuale. Ci riferiamo a Giampiero Mughini. Non è mai entrato in competizione con lui?
“No, ci mancherebbe. Ci siamo confrontati solo nell’atletica leggera. Non sono una persona pesante e mi guardo bene dal rivaleggiare sul terreno della scienza. Mughini ha una ragguardevole proprietà di linguaggio. Ma abbiamo anche conversato, se non in dialetto, coi segnali discorsivi. Giampiero, dopo aver ubbidito ai diktat dell’istituto dove ci siamo diplomati, è divenuto un ribelle. Il suo senso dell’umorismo è diverso dal mio. Ci vediamo poco o niente: io abito a Milano, lui a Roma. Tuttavia mi piace il suo percorso. Alla Picasso. Con colori ed espressioni mutevoli”.
Mughini, al di là dell’attitudine ad appaiare facondia argomentativa e battute secche, non ha mai contrattato il prezzo per i suoi articoli. Lei, Zuccalà, quando è passato dalla carta stampata alla tv, su sprone di Pippo Baudo, ci risulta che fece il tragitto da Milano a Catania a bordo di una Ferrari. Gli editori dei giornali pagavano bene?
“Quella della Ferrari è una storia curiosa. Un mio amico petroliere fu rapito e quando venne liberato volle vendere a rate la Ferrari. La televisione privata mi ha poi permesso di acquisire dimestichezza col mezzo tecnico. Mi fu utile quando passai alla Rai. La busta paga era buona. Non sono divenuto miliardario, ma non è stata mai una mia aspirazione. Come sostenete, per quanto riguarda i documentari, i soldi non rappresentano un marchio di qualità. Quando, verso la metà degli anni ’90, la Rai perse i diritti sugli scontri di vertice, con la prospettiva se mi andava bene di fare il servizio di Bologna-Napoli, approfittai dello scivolo. Col prepensionamento era chiaro che non avrei incassato in vecchiaia molti soldi. Ma l’ho detto: le cose che contano sono altre. Dopo aver lavorato per una tv svizzera, cedetti alla ‘corte’ dell’insistente Italpress. È diventata una seconda famiglia. Poco larga di manica. Per rispondere alla domanda, gli editori dei giornali pagavano di più. Però si può essere felici anche con due spicci”.
Sembra che Vialli una volta le diede l’altolà. Andò oltre con l’abitudine a pungere sul vivo con umorismo?
“Mi è capitato recentemente d’incontrare Gianluca Vialli ed è stato garbato, come sempre. Alle mie domande ai tempi rispondeva col sorriso sulle labbra. Anche le poche volte che era scuro in volto, manteneva una certa educazione. Alcune sue risposte erano pure argute. Solo in un’occasione perse l’aplomb. Fu alla vigilia, a Mosca, della sfida della Nazionale italiana contro l’Urrs per gli Europei del 1992. Azeglio Vicini, come commissario tecnico, aveva le ore contate. Arrigo Sacchi era pronto a sostituirlo. Io misi il dito nella piaga. A modo mio. Lui ebbe un brutto presentimento”.
Vialli si è distinto dalla maggior parte dei suoi colleghi, in lotta coi congiuntivi. Quando l’allora presidente della FIGC, Antonio Matarrese, lo accusò di atteggiarsi a Robin Hood del calcio italiano, ebbe la battuta pronta: sempre meglio ché essere lo sceriffo di Nottingham. Se lo ricorda?
“È verissimo: Vialli aveva la battuta sempre in canna. Sui campi di gioco era rapido, coriaceo, acrobatico. Tirava forte, faceva le rovesciate, costringeva alla resa i difensori più arcigni. Soprattutto possedeva, e possiede tuttora, la sana impertinenza che lei attribuisce anche al sottoscritto. Ad Arrigo Sacchi forse questa cosa dava fastidio. Io stesso mi sono scontrato con dei pezzi grossi. E non glie le ho mandate certo a dire”.
C’è un’altra cosa che balza agli occhi. Lei ha parlato di colori ed espressioni mutevoli. Come Picasso. Ma si rendeva conto ai bei tempi che ogni qual volta la inquadravano aveva sempre una cravatta diversa ed eccentrica?
“Ma io ci sono nato con la cravatta. Anzi con la camicia. Ho cercato di fare cose diverse. Più originali. Qualche volta ci sono anche riuscito. Pure se mi hanno preso per pazzo. Magari fosse solo per eccentrico. Mi sono fatto comunque volere bene da Sandro Ciotti, quando era conduttore della ‘Domenica Sportiva’. Lavorare divertendosi e divertendo è il massimo. Ed è per questo che mi ritengo fortunato. Sin dalla nascita. Non è da tutti, guadagnarsi da vivere con qualcosa che si ama”.
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