L’ironia di Zuccalà e quel calcio che non ci sarà mai più
Nov 30, 2023

Franco Zuccalà ha svolto con classe ed entusiasmo una professione con cui poter dare l’acqua della vita all’uso dei luoghi comuni della lingua italiana. I luoghi dell’anima, congiunti al senso etimologico della parola topofilia (dal greco topos, “luogo”, e philia, “amore”), hanno invece caratterizzato la sua seconda giovinezza. Contraddistinta da un’ombra di malinconia in più rispetto allo smalto degli anni verdi, trascorsi sulla carta stampata ad apprendere il mestiere. Da Francesco all’anagrafe fu ribattezzato Franco. Per tagliare corto. E lui imparò subito che il gioco del calcio non doveva essere preso troppo sul serio. Da sfegatato tifoso romanista, avvezzo a chiamare lenti a contatto la coppia di centrali della mia squadra del cuore, trovai spassosa l’aggiunta di soporifera fatta da Zuccalà alla linea difensiva capitolina.

Nell’ultimo campionato italiano a sedici squadre, vinto sul filo di lana dal Milan di Gullit, quando Salvatore Bagni fece il gesto dell’ombrello ai tifosi rossoneri, disse che era un invito premuroso. In campo pioveva a dirotto: dovevano coprirsi. Nei suoi servizi televisivi, dopo gli articoli redatti con sagacia ed energia, c’era una bella padronanza dei modi di dire legati ai verdetti del campo. Zuccalà affermava la propria autonomia col valore terapeutico dell’ironia, senza mai cadere in forzature caricaturali.

Franco Zuccalà intervista l’Avvocato Agnelli

Partita dopo partita, lontano dalla cifra dell’odio dei tifosi che scambiavano gli stadi per arene, ha saputo allietare le domeniche di molti sportivi. A lui non è mai interessato un granché il problema della verità, intesa come aletheia. Al concetto di dischiudimento, o di svelamento, preferiva la condicio sine qua non della schiettezza. Franco di nome e di fatto.

Lei ha lavorato con grandi giornalisti: Montanelli e Gianni Brera sulla carta stampata ed Enzo Biagi per la tv. C’è qualcun altro da ricordare?

“Ho lavorato, intorno al 1958, con Giuseppe Fava, detto Pippo. Bravissimo pure come scrittore. Anch’egli siciliano. Fu ucciso a Catania dalla mafia trentacinque anni fa. Ammiro Giuseppe Fava pure per la trasposizione del suo libro ‘Passione di Michele’. Il film che ne fu ricavato, ‘Palermo oder Wolfsburg’ di Werner Schroeter, trionfò al Festival di Berlino nel 1980 e ancor oggi non perde un colpo”.

Coi blog invece chi perde i colpi può correggere di continuo le notizie. Si stava meglio prima, con gli incidenti tecnici?

“Ogni epoca costituisce un caso sé stante. Quello che posso dirle è che ai miei tempi i correttori di bozze facevano bene il loro lavoro. La figura del correttore di bozze oggi è scomparsa. Tuttavia, alla luce della mia esperienza presso molteplici testate giornalistiche, ne ho viste di cotte e di crude. E spesso non erano cose tristi, bensì comiche. Sebbene in modo involontario. Per dirne una, a ‘Telestar’, a Palermo, dove fui assunto dopo aver mosso i primi passi come giornalista col ‘Corriere di Sicilia’, nella mia città, partivano i giornali con la prima edizione verso le undici di sera. Diretti verso gli angoli più remoti dell’isola; erano testate locali, contenenti, però, un errore notevolissimo: anziché ‘cosche’ mafiose, c’era scritto ‘mosche’ mafiose. La vettura ‘incriminata’ fu fermata a Gela, al termine di un inseguimento, e le copie con lo strafalcione vennero bruciate”.

È vero che avete inventato la figura, anch’essa scomparsa, del bordocampista?

“Fu una mia idea, a onor del vero. Ma, in effetti, Pizzul m’ispirò. Se cosi si può dire. Bruno, durante le telecronache degli incontri della Nazionale italiana di calcio, era solito fumare. Solo che, per quanto cercasse di non far sentire il rumore dell’accendino, gli ascoltatori mangiavano la foglia. Sull’esempio dei colleghi statunitensi, pronti a raccogliere le testimonianze degli atleti appena conclusi i match, permisi a Pizzul di sfogarsi: io ‘pescavo’ i calciatori, prima che scendessero negli spogliatoi, e lui fumava in pace”.

Con la telecronaca della finale di Coppa dei Campioni del 1985, tra Juventus e Liverpool, diede prova di professionalità.

“Pizzul prese la decisione giusta a non dare notizie dei tifosi sopravvissuti alle famiglie all’ascolto. Perché sennò avrebbe allarmato quelle di chi non era riuscito ad arrivare alla tribuna stampa. Fu atroce quello che fecero gli hooligans, però lui svolse l’ingrato compito di telecronista con decoro. La sua umanità affiorava pure nei momenti lieti. A Stoccolma, dove ci trovavamo per seguire la Nazionale, perse il taccuino. Rimediammo alla bell’e meglio. Bruno si adattò, senza battere ciglio”.

Pizzul è anche un omone ed ergo, benché educatissimo, impossibile da spostare. Il Trap invece una volta le appioppò una spinta. Rientrava nei rischi del mestiere di bordacampista?

“Nei rischi, per così dire, sì. Negli imprevisti, no. Perché può capitare. Specie a chi è esile tipo il sottoscritto. Io, come dà a intendere lei, ero armato di buona volontà, e altresì di una robusta ironia, ma non avevo, né ho, ovviamente, la stazza di Bruno. Giovanni Trapattoni è stato senza dubbio un bravo allenatore, anche se lo hanno tacciato di ricorrere troppo al catenaccio. Ha saputo gestire i vari calciatori, ma è sempre stato suscettibile. La sera del 7 dicembre 1988, al termine del primo tempo dell’ottavo di finale di ritorno tra lnter e Bayern Monaco, si stizzì. All’andata la squadra nerazzurra s’impose per 2 a 0. Il Trap pregustava il passaggio del turno. In casa, a San Siro, dopo i primi quarantacinque minuti, la Beneamata invece perdeva per 3 a 1. Mi limitai a chiedergli come l’avrebbe messa per il secondo tempo. Non me la presi, comunque. Bisogna essere sportivi. Trapattoni era convinto che noi isolani trapiantati a Milano capissimo poco di calcio. Eppure aveva esordito in Nazionale in Sicilia. Terra d’intenditori”.

Storico volto di “Novantesimo Minuto”

Gianni Agnelli, padrone sia della Juventus ché della Fiat, dai modi ieratici ma al contempo signorili e affabili, sapeva stare allo scherzo?

“Agnelli, sì. In uno dei miei servizi sottolineai che la Juve, in uno dei rari momenti di crisi, non camminava nemmeno a spinte, come la pur reclamizzata Duna. Se la ricorda? La macchina berlina prodotta dalla casa automobilistica di Agnelli. L’Avvocato disse che non mi avrebbe mai preso come capo dell’ufficio stampa della Fiat”.

Altri presidenti erano meno autoironici. Silvio Berlusconi si è spesso risentito. Ed Ernesto Pellegrini pose il veto affinché non entrasse ad Appiano Gentile. Ma cosa la spingeva ad assestare punture di spillo, sia pure con la sana insolenza dell’umorismo, ai padroni del vapore e del pallone?

“Mi divertivo. Berlusconi una volta intimò al sottoscritto di non inquadrargli un brufolo. Il Cavaliere ci ha sempre tenuto ad avere un’immagine ineccepibile. Io, d’accordo col mio operatore, Sergio Calabrese, con cui c’intendevamo a meraviglia, cominciai il servizio con un primo piano del brufolo. Per quanto riguarda Pellegrini, presidente dell’Inter dal 1984 al 1994, presi spunto da Gino Bramieri, tifoso nerazzurro, che dava uno spettacolo dal titolo ‘Sono momentaneamente a Broadway’. Il comico, esilarante nelle macchiette e nel gioco degli equivoci, disse che bisognava tappezzare San Siro di giornali perché l’Inter era forte solo sulla carta. Come sostenuto a inizio campionato da Pellegrini. Il quale venne poi al teatro ad assistere alle caricature di Bramieri e del suo staff che gli strapparono tante risate. Grazie alla destrezza dell’operatore attaccai l’immagine del presidente divertito al servizio dell’Inter sconfitta in casa, insieme ad altri ghiribizzi. Come li chiama lei”.

Però, al contrario di Beppe Viola, dotto paroliere, aveva bisogno del supporto delle immagini la cui logica è acritica e seriosa. Lei l’ha resa spassosamente critica. Cosa c’era in quella (il)logica comunicativa che la spingeva a diventare più spiritoso di quanto fosse fuori dai servizi tv?

“Ma io non sono spiritoso. Sono un asociale, chiuso in me stesso. Non ho mai avuto tanti amici. Mia moglie teme che col vizio di dire certe verità scomode le faccia perdere le sue ‘pie’ amiche. Ci sono persone che mi hanno tolto il saluto a causa di quella che lei ha definito sana irriverenza. Da giornalista mi sono sempre mantenuto neutrale, fuori dalla mischia e dalle polemiche sterili, per svolgere al meglio il mio lavoro. Con Beppe Viola, che mi è morto praticamente tra le braccia mentre stava montando il servizio di Inter-Napoli, scherzavamo di continuo. Da buoni amici. Tra gli argomenti che, fuori dai servizi, prendevamo di mira il nostro preferito restava l’impasse sulla tempistica delle raccomandazioni politiche, o segnalazioni che dir si voglia, per entrare alla Rai. Viola era sferzante, impeccabile, tanto nelle parole quanto nel vero spirito di solidarietà e collaborazione tra colleghi”.

– continua –

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