Paolo Faccini era l’erba del vicino (che è sempre più verde) con le scarpe della festa. Per non far arrabbiare mamma Adua promette: «Quando sarò ricco ti comprerò una casa più bella…». Sogni di un ragazzo col pallone all’inizio degli anni Settanta, città di Verona. «Idoli? Non ne avevamo, un po’ Vendrame e Zigoni, geni e ribelli. Non guardavamo la tv per vedere le scarpette ultimo modello, ma solo per i piedi dei campioni che inventavano magie». Il papà di Paolo, Primo, è agente di commercio e in fondo il figlio sceglie un mestiere simile, da girovago. I Faccini abitano in centro, vicino c’è un comprensorio di case popolari.
Ci sono prati e giardini, nei cortili dei palazzoni, campi da calcio, con l’occhio dei bambini. «Il pallone non usciva mai. C’erano gol, cazzotti. C’era chi portava il pallone e voleva giocare a tutti i costi anche se non la prendeva mai, c’era il più piccolo che finiva in porta». I suoi genitori non vanno mai allo stadio a vederlo neanche quando comincia seriamente ad applicarsi al football con il San Zeno, club storico veronese, da dove è transitato anche Damiano Tommasi. Paolo Faccini parte da mezzala.
«Ero il classico numero 10, poi, visto che ero il più alto, mi spostarono centravanti». I signori Faccini, però, lo marcano a uomo perché porti a casa voti di minima sopravvivenza scolastica. «Mia madre era meno tollerante quando la domenica, dopo la Messa, tornavo a casa con i pantaloni buoni tutti inzaccherati per l’ennesima partita». A 14 anni passa un treno per Roma disposta a mettere qualcosa nelle casse del piccolo club. Il Verona viene scartato per questo. Così Faccini compie il classico viaggio della fortuna alla rovescia, destinazione Ostia Lido, dove si trova il pensionato per i ragazzi del settore giovanile giallorosso. Paolo si iscrive a ragioneria e sui banchi di scuola conosce sua moglie Manuela, tedesca di nascita. Conosce anche la vita frettolosa e senza soste dei giovani avanguardisti il cui motto è: libri e pallone. «Ci allenavamo alle Tre Fontane. Uscivo da scuola, prendevo l’autobus, quindi il trenino, quindi un chilometro a piedi. Allenamento e poi il percorso inverso. Un pezzo di pizza, i compiti, poi a letto. L’indomani la stessa storia». Chi studia di più, chi studia di meno, chi sale verso la prima squadra e chi si perde per strada. Faccini sale, finisce anche nella nazionale giovanile e diventa, nientedimeno, pupillo di Allodi. «Diceva sempre: ‘‘Prendete esempio da Faccini”».
A 16 anni si allena spesso con la prima squadra giallorossa. Conosce Nils Liedholm. «Indimenticabile. Aveva un soprannome per tutti: io, per lui, ero ”il piccolo Riva”. Con noi giovani era straordinario. Finito l’allenamento con i titolari si fermava a farci lezione». Liddas gli gioca anche uno dei suoi tiri. Gli annuncia un possibile esordio («Faccini, tieniti pronto»), poi invece lo manda in tribuna: «Altrimenti ti monti la testa».
Faccini non si monta la testa, ma si rompe un ginocchio: «Non era come adesso. Persi un anno». Non è un bel periodo. Va a casa ogni tre mesi e ogni volta che sale sul treno viene travolto dal magone. «I pianti che mi sono fatto». Passa anche attraverso l’obbligo di «farsi le ossa» in serie C. Finisce a Nocera. «Un’esperienza durissima. Vivevo a Vietri sul mare presso una famiglia fantastica. Meno male che c’erano loro, altrimenti sarebbe stato peggio. Ha presente la C1 al Sud? No? Le botte che ho preso in quell’anno non le ho prese in tutta la carriera. Un paio di volte sono scappato. Mi ripresero per i capelli». Facile: Faccini possiede (ai tempi) una bella chioma riccioluta. Dopo la C1 arriva la serie A e finalmente quell’esordio promesso da Liedholm, il 12 aprile 1981. Faccini fa gol dopo 13′. Ne fa un altro. «Entrai al posto di Conti e su un angolo chiesi a Pruzzo: ”Bomber, dove mi metto?”. ”Ma vaffanculo, mettiti dove vuoi”». È in panchina quella maledetta domenica del gol di Turone alla Juve. Quella Roma non può non vincere uno scudetto, prima o poi. «Liedholm era bravissimo a gestire un gruppo così eterogeneo. Si andava dal brontolone Pruzzo all’elegante Falcão. Liedholm riusciva a conciliare i caratteri di personaggi così diversi. Riusciva a costringere quella truppa recalcitrante a sottomettersi ai suoi riti. I viaggi a Busto Arsizio dall’amico ”mago” Mario Maggi. Le partenze col vagone letto a mezzanotte. Appuntamento a Termini. Falcao e Conti protestavano, cercavano di convincere Liedholm a prendere l’aereo, magari la mattina dopo. Niente». Tre presenze e un gol nell’anno dello scudetto, ma la sua non è una rete qualsiasi. «È stato il primo gol della Roma in campionato. Lo feci al Cagliari, dove arrivammo via Busto Arsizio. Nono del primo tempo: pensavo che fosse anche il più veloce in generale e già mi aspettavo le famose bottiglie di vino in premio. Ma Hernandez mi precedette di un minuto prima». Niente bottiglie, ma la firma su una stagione indimenticabile. Scudetto e poi, dopo nove anni di vita romanista, l’addio. Come chi ha preso l’ultimo treno.
Faccini comincia a girare in provincia, da Sud a Nord. «A 32 anni, con le pile scariche, ho mollato, anche perché mia moglie non voleva più girare». Nel 1994 supera l’esame per procuratore e così continua a fare su e giù per l’Italia. Come bagaglio, rari rimpianti: «Alla fine si ottiene quello che si merita, carriera giusta così. Così, così, a rifletterci meglio. Forse avrei dovuto essere più disciplinato, più attento ai particolari. C’era la convinzione che bastasse andare in campo e non c’entrasse nulla tutto il resto. Facevo come i titolari e non lo ero, avrei dovuto fare di più. Però ho passato anni stupendi». Non ha mai dimenticato quell’erba della casa del vicino. Non ha mai dimenticato l’erba, in generale. «Mio padre aveva dei terreni nella bassa veronese, così, dopo il diploma di ragioniere, ho dato qualche esame di agraria a Perugia. Troppo dura». L’università o la terra? Forse entrambe.
Roberto Perrone