Andiamo indietro nel tempo, ad una domenica di fine maggio. 1999. Una domenica come tante verrebbe da pensare, soprattutto per chi tifoso non è. Una domenica che poteva valere una stagione per Piacenza e Salernitana. Due squadre abituate ad inseguire, a lottare e sperare che dall’altra parte della schedina nessuno faccia qualche strano scherzo. Come il Perugia con il Milan. Piacenza-Salernitana vale la salvezza. Certo, i biancorossi possono anche permettersi di pareggiare e forse di perdere ma quel 24 maggio il biscotto pare decisamente indigesto. Il Garilli è pieno, un’immagine che fatica a rivedersi di questi tempi. Ma questa è tutta un’altra storia.
La Salernitana deve vincere Deve. Senza nessuna “X” che la può salvare dal baratro della retrocessione. Tre punti o Serie B. La partita è di quelle nervose, tese e l’arbitro ci mette pure del suo. Passa avanti il Piacenza ma la Salernitana pareggia con un rigore di Fresi. Fuori dal campo però la tensione è anche più forte. La Curva Sud dei campani canta, incita e manda a quel paese gli avversari. Si scalda e si anima. 1500 tifosi fanno tremare i tubi Innocenti. Non basta il pari e lo sanno bene anche loro che si sono fatti tutta l’Italia per essere lì, proprio quel pomeriggio. Si sono fatti tutta Italia perché credono nell’impresa. Ci credono fino alla fine, quando in campo scoppia la rissa.
Vierchowod che spinge, la calca e poi il triplice fischio con l’arbitro che viene allontanato dal campo scortato da due poliziotti. Chi non è tifoso non può certo capire cosa possano provare quei tifosi sotto il sole di fine maggio. Non è nemmeno possibile trovare un sentimento capace di descrivere quella rabbia che monta mista ad una delusione feroce, bestiale. La Salernitana sprofonda in B e la Curva Sud inizia la sua lenta discesa verso l’inferno.
Quando qualcosa va a finire male si prova il desiderio di spaccare qualcosa. Può capitare di essere in casa da soli e scagliare un cellulare contro il muro. O può accadere di trovarsi immersi nella bolgia di uno stadio. E allora quel cellulare diventa improvvisamente il lavandino del bagno. Lo si tira in cinque, si stacca dai tubi e si getta per terra. Mille pezzi che diventano armi. Proiettili da lanciare per sfogare quella rabbia. Rabbia verso Piacenza, verso quella città che per i salernitani non sarà più la stessa. Inizia il viaggio verso la stazione su quei pullman dove grate di ferro prendono il posto dei finestrini. Piacenza è piccola, una di quelle città che all’estero nemmeno conoscono. E nemmeno a Salerno, almeno fino a quella domenica. Lo stadio non è troppo distante dalla stazione ma per quei 1500 il viaggio sembra non finire mai.
Ore 20: c’è un treno ad aspettare i tifosi salernitani. Un treno come tanti altri, un convoglio che dovrà fare il viaggio opposto, scendere nel profondo dello stivale. Un treno che poteva significare gioia ma che dopo quel risultato rappresenta semplicemente qualcosa da spaccare. Come i lavandini dello stadio poco prima. La rabbia non può che aumentare in quegli scompartimenti stretti, troppo stretti per contenere tifosi e delusione. Buttati dentro come bestie in carrozze dove non si respira ossigeno ma pura tensione. Quel treno non farà soste: dritti verso Salerno senza appello, come la sconfitta bruciante del Garilli. Più di settecento chilometri in un solo colpo.
A Bologna qualcuno pensa allora di tirare il freno di emergenza. Di bloccare quella fuga verso il Mezzogiorno. 21:35. Qualcuno scende e le pietre anonime della massicciata si trasformano in altre armi. Come le schegge di ceramica allo stadio. La rabbia si trasforma in sassaiola verso un bar, un locale come tanti che diventa preda di pietre e bottiglie. Quelle bottiglie di birra bevute tra un coro e l’altro. In coda si aggiungono altre carrozze ma la furia non si divide. Si moltiplica. Fa caldo in quel treno che si ferma anche a Prato e Firenze: non sono più tifosi granata ma bestie stipate in un carro bestiame. Troppo stretti anche per potersi disperare dopo quella caduta, dopo una A inseguita per cinquant’anni e svanita sotto il sole del Nord. A Napoli qualcuno prova anche a scendere e buttarsi su qualche pullman di passaggio. Ma c’è poco da fare: quel treno era partito da Piacenza e doveva arrivare a Salerno. E a Salerno mancano ormai pochissimi chilometri. Soltanto poche traversine. Manca la Galleria Santa Lucia.
Nell’oscurità illuminata a tratti qualcuno sente puzza di fumo. Un odore acre, anche più di quel sudore che puzza d’alcol. Un fuoco acceso in una carrozza. Un incendio. C’è chi come Simone prova a spegnere le fiamme. C’è chi come Simone da quel treno non scenderà vivo. Ciro, Enzo e Giuseppe si perderanno a loro volta in quel fuoco maledetto. Quattro vite spazzate via mentre il treno esce dalla galleria. Quando gli idratanti hanno finito il loro compito c’è ormai poco da fare. La discesa verso l’inferno si è conclusa. Dopo settecento chilometri, sassi, fiamme. E quattro morti.
Fonte: “Soccer Illustrated”