Alessandro D’Andrea è un ragazzino di quasi quattordici anni che sta tornando a casa dalla partita. Gioca col Biadene, nel trevigiano. Lo ferma l’allenatore di un’altra squadra giovanile, la Fulgor. “Sei D’Andrea?” “Sì”. “Ti ho visto giocare. Sei bravo. Vuoi disputare un torneo con la mia squadra, la Fulgor ?” “Ma io sono del Biadene . E poi per queste cose , bisogna che lei parli con mio padre”. “Con tuo padre ho già parlato. E’ d’accordo” . E Alessandro firma. Scopre poi a casa che il padre non aveva incontrato nessuno. Alessandro verrà tesserato contemporaneamente per due società, perché la Fulgor falsificherà anche la sua foto . Gli organi preposti decidono: Alessandro D’Andrea non può giocare più. E a partire da quel 1974 rimarrà fermo. Disperato.
Piange tutto il giorno, vorrebbe giocare. Realizzare il suo sogno. Come quello di Antonio Bacchetti, che ancora non sa nulla di Alessandro, anche se le due storie stanno per incrociarsi. Bacchetti è stato un grande calciatore, in odore di Nazionale come si usava dire. Nasce dalle parti di Udine . E tira i primi calci nelle squadre locali. Nessun intoppo, nessun doppio tesseramento. Semmai una lunga gavetta. Prima la Safrec, poi il Ricreatorio Festivo Udinese, quindi la Gemonese e il Fagagna. E’ figlio di un operaio. Fa anche il garzone di bottega e il pasticciere. Per tutti è “Toni” Bacchetti. Nel ’40 – ’41 lo acquista il Potenza in serie C. I soldi non sono tanti. Durante la guerra, le squadre meridionali non possono largheggiare : “Se mio padre non mi avesse mandato di tanto in tanto qualche lira, avrei saltato i pasti. Guadagnavo 700 lire al mese. La società non mi dà mai una mano, rifiutandosi di capire i problemi miei e degli altri. Dopo due mesi, mi cacciano dal ristorante, perché nessuno mi fa più credito”. Anche se decide la partita col Molfetta. A diciassette anni e mezzo.
Resistenza
“Nella mia vita di calciatore, mi sarebbe sempre piaciuto giocare senza dover sopportare angherie e umiliazioni”. Va al Savoia e quindi torna a casa, all’Udinese. Dove però non gioca mai. Il trasferimento non registrato dagli almanacchi è quello nella Resistenza, perché Toni diventa partigiano. “Abbiamo combattuto in montagna con il cuore”. Il 25 marzo 1945 preleva un collaborazionista dei nazisti, un certo Antonio Comuzzi che taglieggia i rifornimenti di frumento per i partigiani. Comuzzi deve essere processato dal tribunale partigiano e l’esito è scontato. Ma i quattro incaricati del prelevamento, tra cui Toni, si ritrovano i nazisti vicino e Comuzzi diventa un imbarazzante ostaggio. “Era pericoloso camminare con una condanna a morte scritta in tasca”. La decisione è presa : lo ammazzano con due colpi alla nuca.
Finita la guerra, l’Udinese lo cede all’Atalanta: qui per lui stravede il suo allenatore, che si chiama Giuseppe Meazza. Toni ha grande visione di gioco e tiro potente. Il suo strapotere fisico gli consente il tipico lavoro di spola della mezzala sinistra. Dopo una parentesi a Lucca, nel ’48 – ’49 il passaggio all’Inter. Gioca (poco) vicino a Nyerse Lorenzi, Campatelli e Bearzot : “Avevo le qualità per giocare a lungo nell’Inter. Quando lasciai, mi diedero diecimila lire di premio. Si può umiliare così un uomo che già prendeva la miseria di trentamila al mese?”. Con tutti questi cambi di casacca Toni può custodire gelosamente il dialetto friulano. Poi la svolta : il Napoli di Achille Lauro che conta su Amadei e Bepi Casari in porta. Toni bagna il suo esordio con un destro che carambola sul palo e fa esplodere il Vomero: Napoli-Fiorentina finisce 3-2. Mentre corre, ha uno strano modo di abbassare e alzare la testa, curvando le spalle. E i tifosi lo chiamano “’o Cammello”. Ma salta molti allenamenti . E imperscrutabili rimangono i suoi meccanismi di attivazione sul campo .
Più facile capirlo fuori: in una trasferta invernale a Torino, vede qualcuno sotto un porticato. E’ disteso per terra, trema di freddo. Toni si toglie il cappotto e glielo regala. Poi gli dà anche i guanti. Un altro giorno, regala il soprabito a un mendicante. La sua è una generosità modellata dagl’ideali. Assume la leadership sindacale della squadra, criticando la conduzione del presidente Lauro . E lo fa definitivamente imbestialire quando entra nel direttivo della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica su proposta di Enrico Berlinguer.
Un gol per i fascisti
Ma è ormai anche un beniamino del Vomero, sempre stracolmo. E quell’annata segna dieci gol. L’anno dopo c’è Napoli-Inter e lui non si presenta nemmeno . L’allenatore Monzeglio prova a chiamarlo addirittura con l’altoparlante dello stadio: “Il giocatore Bacchetti si presenti subito negli spogliatoi”. Senza risposta. Al suo posto gioca Gramaglia. Toni in realtà si nasconde nel suo impermeabile sulle gradinate. Il cappello a falde larghe. Gli occhiali scuri. E la sigaretta. “Monzeglio xera un fascista. E anche il comandante Lauro, che comprava i voti alle elezioni con le scarpe spaiate. E mi non fazo i gol per i fascisti”. D’altra parte per un monarchico come sua eccellenza Lauro avere in squadra un comunista ed ex-partigiano è davvero troppo. Deve tenerselo, ma solo finchè gioca bene. Lo svenderà all’Udinese appena possibile. Anche stavolta gioca poco. Si sfoga nel retrobottega di un bar, giocando a ramino fino a tardi oppure al Casinò di Venezia. E conclude la sua carriera in A nel Torino.
Rimbalza al Crotone, riassaggiando quella serie C in cui gli stipendi sono cambiali, spesso in protesto: “C’era un calciatore che giocava bene.Un tipo alla Amarildo. Ma non mangiava mai abbastanza. Un giorno lo porto con me in un ristorante. Quando la società lo viene a sapere, mi rimprovera duramente. Faccio allora notare che continuando così, quel giovane talento non solo non avrebbe più potuto giocare, ma nemmeno reggersi in piedi. Mi sento rispondere: ‘che si arrangi’ ”. Toni smette ma decide di rimanere nell’ambiente. Il suo sogno è plasmare i ragazzi, sostenerne la crescita . E, come tanti idealisti, è disposto a tutto. Ma proprio a tutto. Sborsa la bellezza di sette milioni e settecentomila lire per diventare direttore tecnico della Gemonese. Poi cambia la dirigenza e lui chiede la restituzione dei soldi. “Ma tu chi sei ? Chi ti ha mai visto?”. Toni se ne va col megafono al centro di Gemona. E grida forte. Accorre tutto il paese.
Mercato
Prova a fare il presidente di un’altra società, l’ Esperia. Cura anche gl’interessi dei suoi calciatori, seguendoli e preparandoli per il calcio professionistico. E riesce a lanciare gente come Gianfranco Casarsa e Silvano Martina. L’Esperia è una società di modeste proporzioni e in otto anni, Toni si sfianca beccando solo qualche spicciolo. “Mi mantiene mia madre”. La sua regola è portare al ristorante i giocatori che se la passano male “perché mettano qualcosa in pancia”. “ Lo so anche a mi che il calcio non xe mai stato soltanto un gioco. Giravan i soldi e non tutti xerano puliti”. Nel 1972 decide di sciogliere l’Esperia e di cedere i sessanta giocatori cartellinati a un’altra società , la Porzio di Udine, che è di proprietà di un certo Armando Lorenzutti. La Porzio è la più quotata in città a livello dilettantistico anche per aver sfornato Frossi e Virgili. E Lorenzutti è molto noto nell’ambiente. Tra l’altro organizza il torneo Città di Udine. Per la categoria allievi uno dei più prestigiosi d’Europa. E’ molto più giovane di Toni . Ha anche un negozio di articoli sportivi al centro di Udine. E gli piace vestir bene, esaltando i suoi baffi curati.
Nel Torino
Tra Toni e Lorenzutti emerge subito la dissonanza generazionale. Ma non è l’unica: sulle condizioni per la compravendita dei giocatori , ma soprattutto sul trattamento dei giovani, i due sono agli antipodi. Lorenzutti conduce la società con criteri ferocemente speculativi, abbandonando i giocatori a se stessi , cercando la rapida vendita a condizioni assolutamente inadeguate, pur di realizzare. Toni non ci sta : “Avevo insegnato ai miei ragazzi che nella vita la cosa più importante è l’onestà, che dovrebbe portare a esigere in cambio la lealtà degli altri. Invece non vengono neppure trattati come uomini. Ma come vacche al merca’ ”. Può fare ben poco. Lorenzutti ha venduto uno dei suoi ragazzi a una squadra di Eccellenza, il Bertiolo. Ma ha incassato la metà del pattuito, solo seicentomila lire. Toni vede ancora sbertucciati i suoi principi . E pochi soldi . Mentre i ragazzi, spesso col codazzo dei genitori, lo pregano di intervenire. Toni è malato, entra ed esce dal sanatorio. Sembra una tubercolosi. Forse è la malattia che fa crollare le sue ultime difese : “Ai miei ragassi gavevo promesso che ci avrei trovato una sistemazione in altre squadre. Lorenzutti ga dito che ci pensava lui a procurare i nuovi contratti. Ma poi ga fatto la cresta su commissioni. Quei come Lorenzutti che aiutano i giovani e po’ quando non gli servon più , li scaricano come merce andata a male, mi li massaria tutti”. Sono le nove del mattino del 18 maggio 1974. E’ un sabato. Armando Lorenzutti ha appena aperto il suo negozio di articoli sportivi in via Leopardi. Toni entra, stretto nelle spalle come sempre. Ha con sé una borsa.
Tosse
“Mandi Toni, no go tempo da perder stamatina . Ti go già dito: passa setimana l’altra ! ”.
“Mandi un’ostia , Lorenzutti. Son tre mesi che mi devi quei soldi! E adesso li tiri fuori. Tuti. Ora. No setimana l’altra”.
Sul piano del bancone tra una pila di magliette spiegazzate e colorate e il registratore di cassa, Toni picchia forte il pugno. Proprio sul ciuffo di Adriano Panatta , che nella foto sottovetro del pianale sorride in una pubblicità delle Superga.
Un colpo di tosse. Poi un altro . E un altro ancora. Toni si piega in avanti senza riuscire a smettere. Convulsioni.
Lorenzutti si guarda in giro. Butta un occhio oltre la vetrina, sul marciapiede. Non è ancora entrato nessun cliente. Solo il Toni , che adesso sta dando gli ultimi colpi di tosse, il fazzoletto portato alla bocca, gli occhi di fuori.
“Vien dietro” gli dice il Lorenzutti.
Toni prende su una borsa che aveva appoggiato per terra, aggira il bancone e segue il Lorenzutti nel retrobottega.
“Non stai bene, Toni”.
“No sto ben perché ti no me paghi, sacramento ! No sto ben perché mi vuoi fottere ”.
“Non dir così, Toni, che ti ho sempre voluto bene…. E adesso… quella tosse mi fa pensar male”.
“Ti non ti devi pensar. Né ben, nè mal. Ti te mi devi pagar. Pagar. Capistu?”.
“Lo so. Lo so. Ma te l’ho detto. L’affare è lungo , complicato”.
“Non c’è niente di complicato. Eravamo d’accordo . Il 15 % del ricavo delle cessioni spetta a me . Del resto non m’interessa”.
“Ma non siamo riusciti ancora a chiudere tutti i contratti , Toni. Ci sono almeno una mezza dozzina di società in ballo. E una volta non c’è il presidente e un’altra manca il contabile. Sai come funzionano ‘ste società. Lo facciamo per passione , mica per i soldi… Guarda me che sono qui la matina presto a lavorar nel negossio”.
“A mi no interessa un casso de quel che ti ga dito. Mi voio esser pagà. Adesso. Non ho tempo. Non go più temp…”,
Un altro colpo di tosse non gli lascia finire la frase. Una raffica di colpi. Toni è sconquassato. Porta ancora il fazzoletto alla bocca per provare ad arrestare quegli schianti, secchi, ripetuti. Si piega. Si abbassa e prende qualcosa dalla borsa .
Lorenzutti sbianca.
“No Toni. No far cussì…”.
“Varda che …so bon de ..farlo”.
“Per l’amor di Dio, Toni…”.
“Lassa star Dio, che no esiste gnanca. O almeno no esiste par mi. So sempre sta’ comunista , al contrario de ti, sacramento de un sagrestan falso. Cossa ti vol che me ne importi de Dio, de l’amor…” dice Toni con una pistola in pugno.
“Ti te xe mato, Toni, te xe mato…”.
“Mai stato più san de testa de incùo . Mi no esco de qui se prima ti no me paghi…”.
Dal retrobottega un altro colpo. Secco. Non di tosse.
Toni rimette la pistola nella borsa. Esce dal retrobottega. Si ferma davanti al bancone e, al primo cliente della mattina che ha sentito tutto e lo guarda atterrito, dice : “Ciama la polissia che go copà el Lorenzutti”.
Alessandro D’Andrea
Il primo colpo è andato a vuoto. L’ altro ha trapassato prima la guancia e poi il cervello di Lorenzutti . Quando Toni uccide, sta già morendo. Vorrebbe barricarsi dentro. Si chiude in bagno : “Attenti, sono armato”. Poi fa scivolare la Beretta 7,65 sul pavimento, come fosse l’ultimo assist per il centravanti. Si arrende subito. A patto che non lo si porti in carcere con le manette ai polsi. Lo stesso giorno spiega il movente al magistrato. La Corte d’Assise gli concede varie attenuanti e lo condanna a 10 anni. Il minimo per il reato di omicidio volontario.
Ha ottenuto quello che ritiene l’unico risultato possibile: non farsi espellere da quel sistema, ma uscirne da solo. E fatalmente, sui giornali saltano fuori tante distorsioni, come quelle del piccolo Alessandro D’Andrea, cartellinato con due società contemporaneamente. Lorenzutti, di cui nessuno parla, è il sacrificio offerto dal villaggio globale dei mediatori. Degli allenatori-broker, dei dirigenti più o meno accompagnatori con la vocazione alla borsa nera. Dei mazzieri dalle zampe appiccicose travestiti da talent scout. Una sovraffollata terra di mezzo in cui perfino i sacerdoti vendono ragazzini da un oratorio all’altro per cinquemila lire. La credibilità dei tantissimi operatori onesti e appassionati rischia di uscirne compromessa. E sparare sulla Federazione è inevitabile : è il bersaglio grosso. Anche se quello adulterato sembrerebbe in gran parte calcio dilettantistico. Toni Bacchetti è un assassino, ma può invocare pubblicamente il surrogato della legittima difesa. “Lorenzutti se l’è cercata . Non mi son mai piaciuti quelli che si profittano dei più deboli. Io so che ho fatto giustizia e mi basta. Una volta c’era anche qualche ideale. Oggi nel calcio è scomparso tutto quello che di buono c’era. Ci sono soltanto truffaldini che non pensano ad altro che ad arraffare più che possono. Uccidere è una cosa mostruosa, ma quando si opera nella giustizia e nel bene, non ci si deve rimproverare niente” .
Toni rimane sempre chiuso in una piccola cella. Più piccola del cancro che lo divora. Lentamente. Rifiuta tutti i contatti. Anche se lo vanno a trovare Bearzot, Zoff e il suo allievo, Casarsa. Solo friulani: “Ho ucciso perché ero esasperato. La Federazione non fa rispettare i contratti , consente il sottobanco, il mercanteggiamento dei mediatori. Anche se sono condannato per avere ucciso, accuso la Federazione perché non dovrebbe permettere la stipula di contratti fuori dal regolamento. La maggior parte dei dirigenti di società non è degna di stare nello sport. I loro sistemi sono mafiosi”. Il 21 giugno del 1975, quindi un anno dopo l’omicidio, il Consiglio Federale si muove e stabilisce, all’articolo 1 del regolamento, che: “A tutti i tesserati è fatto divieto di avvalersi di mediatori”.
A proposito. Proprio in quei giorni, la presidenza federale sconfessa la sentenza sul piccolo Alessandro D’Andrea : può tornare a giocare e scegliere la società che vuole.
Gino Cervi – Ernesto Consolo
Il paragrafo “Tosse” è di Gino Cervi.
Da Strastorie.it di Valeria Ravera e Soccernews24.it