Vedevamo a “90° Minuto” quelli di serie A che venivano abbracciati da Platini o Maradona dopo un loro gol e sognavamo che i vari Di Felice o Morbiducci facessero lo stesso con noi. Io ero entrato in questo gotha ed ogni domenica ero puntuale, alle 13,45, al polisportivo “San Biagio”, esattamente tre quarti d’ora prima della partita, per quello che oggi chiameremmo briefing. In pratica, ci davano le divise, ci assegnavano ai vari settori dello stadio e soprattutto ci impartivano le due nozioni fondamentali: se il Gubbio perde, velocissimi a ridare la palla, se il Gubbio vince, fate tutto lentamente e a 10’ dalla fine andate negli spogliatoi, vi richiamiamo noi se c’è bisogno (ovvero se ci pareggiano). Dopo anni di gavetta dietro la curva, da qualche tempo ero fisso nel posto d’onore, sotto la tribuna, fra le due panchine ed avevo con me un ragazzino molto più giovane da instradare: ero salito di grado.
A seconda del risultato della partita, negli anni avevo alternato i tempi frenetici di una mamma con quattro figli e quelli bradipici di un impiegato che timbra qualcosa svogliata-mente dietro un vetro, prendendomi più di una (meritata) ingiuria da parte dell’allenatore avversario. Quella domenica stava piovendo.
Quella domenica il Gubbio stava perdendo. I rossoblù pressano, siamo nei minuti finali, noi raccattapalle ovviamente siamo tutti in campo, in pratica sulla linea laterale.
All’epoca non era stata ancora inventata la procedura del tenere un pallone in mano e ridarlo subito, non appena quello con cui si stava giocando usciva dal terreno di gioco: semplicemente, si inseguiva il pallone evaso e lo si ridava nel minore tempo possibile.
A questo proposito, due settimane prima, addirittura l’allenatore del Gubbio (si chiamava Giampaolo Landi, me lo ricordo benissimo) mi fece i complimenti, perché grazie ad una mia pronta parata e conseguente subitanea restituzione del pallone, consentii al terzino del Gubbio di effettuare immediatamente la rimessa laterale, il che prese di sorpresa gli avversari e ne scaturì la rete della vittoria.
A fine partita, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “Bravo burdél (era romagnolo), mezzo gol è tuo!”.
Insomma, forte di questa esperienza, che mi aveva fatto divenire un idolo fra i colleghi raccattapalle e fra gli amici di scuola (aneddoto questo ovviamente raccontato ai quattro venti durante quelle due settimane, in quello che era il Facebook del tempo, cioè il corridoio durante la ricreazione), ero prontissimo a ripetere l’exploit, se ce ne fosse stato bisogno. Il mio momento arrivò: ultimissimi minuti, il Gubbio come detto stava perdendo, erano tutti avanti, tranne il portiere.
L’arbitro ferma il gioco, un avversario calcia ugualmente la palla, che arriva nei pressi del centrocampo, completamente deserto: di norma non si potrebbe entrare nel terreno di gioco, ma un dirigente mi fa un cenno e capisco che devo intervenire.
Avevo le scarpe da ginnastica, dopo un po’ di metri dentro il campo, nel protendermi per correre più velocemente possibile, la scarpa destra non fa presa e scivolo in avanti, arrivando nei pressi del pallone, con la stessa perizia di Armin Zöggeler, solo che lui va sullo slittino supino e con i piedi a prua, io ero a testa bassa e con le mani protese in avanti: sembravo Ufo Robot su un cielo di erba bagnata.
Fatto sta che non mi persi d’animo, mi rialzai, calciai il pallone verso i giocatori in attesa e corsi per tornare alla mia postazione, rischiando di scivolare per la seconda volta: ho ancora nelle orecchie le risate prolungate dei quasi 4000 spettatori (allora la serie D era seguitissima). Dovevo essere stato divertentissimo, perché riuscire a far ridere il pubblico eugubino quando la squadra è sotto non è facile… Il mio sacrificio fu vano, il Gubbio perse la partita e nella settimana seguente a scuola non si parlò d’altro, non della sconfitta intendo, ma del mio scivolone.
Le cose erano due, negarmi totalmente o affrontare il nemico: scelsi questo secondo metodo, imponendomi di sorridere nel raccontare il mio punto di vista, come succede a quelli che di fronte ad una brutta figura si forzano di ridere per fare finta che la cosa non li tocchi.
Ma non è vero. Oggi ci rido sul serio, ma quella volta la vita mi diede una lezione: si può passare in due settimane dall’essere acclamato all’essere deriso, è successo a tante persone molto più importanti di me, come ci ricorda Manzoni con il suo pe-rentorio “cadde, risorse e giacque”.
Quell’esperienza mi ha insegnato ad essere modesto, umile, a non auto incensarmi e a non essere vanitoso: di solito le persone belle, intelligenti e simpati-che come me lo sono.
Simone Zaccagni