
Il sole era ancora timido, quella mattina del 3 ottobre 1936. Sulle montagne dell’Appennino, la nebbia saliva come un respiro lento, confondendo i contorni degli alberi e le pieghe dei binari. La littorina AT 404, partita da Sulmona, scivolava come un serpente d’acciaio tra le valli silenziose, puntando verso nord, verso Terni, verso il campionato che li attendeva.
A bordo, oltre ai viaggiatori comuni, c’era infatti la spedizione dell’Aquila Calcio, in viaggio verso Verona per una partita di Serie B. Il tecnico Attilio Buratti sedeva con lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Era un uomo di poche parole, abituato al lavoro paziente di allenatore, e quella trasferta aveva il sapore di una piccola sfida. La squadra era giovane, inesperta, ma animata da un entusiasmo ruvido, da provincia italiana anni Trenta: volti scavati, valigette in mano, scarpe lustrate per l’occasione.
Accanto a lui, il giovane Marino Bon, uno dei ragazzi più promettenti. Aveva gli occhi ancora pieni di sogni e di quel misto di euforia e nervosismo che precede una partita importante. Ogni tanto scambiava una battuta con i compagni, mentre il ticchettio regolare delle ruote sui giunti del binario pareva un metronomo.

La linea Sulmona–Terni, però, era insidiosa. Binario unico, segnali manuali, ordini trasmessi da stazioni remote. Bastava poco per trasformare la precisione della marcia ferroviaria in un rischio mortale.
Alle 9.45, nei pressi della piccola stazione di Contigliano, il destino tese la sua trappola.
Sul medesimo binario, da Terni, era partito un convoglio postale trainato da una locomotiva, carico di vagoni e di velocità. Due treni, una sola via, un solo errore: un ordine mal trasmesso, forse un fraintendimento di un capostazione, forse un segnale anticipato. Due convogli lanciati l’uno contro l’altro, ciechi, sordi, prigionieri di un destino che ormai non poteva più essere evitato.
Il boato fu immenso. Le lamiere si contorsero come carta bagnata. I vetri esplosero in mille schegge. Il silenzio della valle fu squarciato da urla, gemiti, dal clangore sinistro del ferro spezzato. I due treni si erano incastrati, fusi in un nodo d’acciaio insensato.

I primi soccorsi arrivarono dai contadini delle campagne vicine. Scene strazianti si offrirono ai loro occhi: uomini schiacciati, corpi insanguinati gettati fuori dai finestrini, grida di aiuto disperate. Il bilancio fu subito pesante: quindici morti, decine di feriti, molti dei quali in condizioni disperate.
Attilio Buratti non ebbe nemmeno il tempo di reagire. Lo trovarono sotto le lamiere della prima carrozza, il volto ancora sereno, come se il sonno avesse voluto risparmiargli la consapevolezza dell’impatto. Aveva solo 42 anni, ma già una vita piena di calcio e sacrifici alle spalle. Per l’Aquila fu una perdita devastante: perdeva non solo l’allenatore, ma la guida morale di un gruppo di giovani cresciuti alla sua ombra.

Tra i feriti, in condizioni gravissime, venne estratto Marino Bon. Il suo corpo, esamine e martoriato, venne inizialmente dato per morto. Solo più tardi, tra i cumuli di nomi, tra gli errori delle prime liste di vittime, il presidente del club abruizzese si accorse che il suo cuore batteva ancora, piano ma deciso. Lo portarono d’urgenza all’ospedale di Rieti. Per giorni restò sospeso, in quel confine incerto tra la vita e la morte che conoscono solo i superstiti. Si salvò, ma la carriera, quella che doveva spiccare il volo, si spense con quel deragliamento. Anche se continuò a giocare sino al 1945.
Nella sede dell’Aquila Calcio, intanto, il telefono squillava senza sosta. La notizia, frammentaria e dolorosa, viaggiava più lenta del disastro stesso. Si seppe prima del numero delle vittime che dei sopravvissuti. Madri, mogli, dirigenti: tutti raccolti nella sede sociale, attendevano i telegrammi ufficiali con un’angoscia sorda. Il presidente Giovanni Centi Colella, stremato, dovette recarsi personalmente sul posto per riconoscere i corpi, per prendersi carico dei feriti, per affrontare il dolore collettivo.


La squadra, dimezzata e ferita nell’anima prima ancora che nel fisico, non rinunciò al campionato. La Federazione, colpita anch’essa dalla portata dell’evento, offrì loro l’opzione della salvezza d’ufficio. Ma i dirigenti scelsero diversamente: si sarebbe proseguito. Altri club prestarono calciatori, si formarono nuove alleanze di solidarietà. András Kuttik, il magiaro arrivato in corsa, cercò di rimettere insieme i cocci, di restituire un filo di dignità sportiva a un gruppo piegato. Venne concessa una finestra straordinaria per il tesseramento di nuovi calciatori.
Il campionato, però, fu un calvario. Senza la guida di Buratti, senza la freschezza di Bon e degli altri compagni feriti, L’Aquila non poté che arrendersi alla retrocessione.
Il disastro ferroviario di Contigliano rimase, per decenni, una ferita aperta nel calcio italiano. Un episodio in cui lo sport, la fatalità e la fragilità dei mezzi umani si intrecciarono come mai prima. Non c’erano ancora gli aerei per le trasferte, né le autostrade sicure; c’erano solo binari e orari da rispettare, e un piccolo errore bastava a cambiare il destino di molti.
Eppure, da quel giorno di ottobre, tra i vapori freddi della campagna reatina, si alzò anche il canto muto di una dignità sportiva che rifiutò di arrendersi. L’Aquila Calcio si rialzò, pezzo dopo pezzo, memoria dopo memoria. Ma il nome di Attilio Buratti e il volto fragile di Marino Bon rimasero impressi, come fantasmi gentili, su ogni maglia rossoblù che calpestava l’erba del Fattori negli anni a venire.
Su quei binari spezzati, la storia del calcio italiano perse per sempre l’innocenza. Poi sarebbe venuta Superga.
Mario Bocchio