
George Best, il genio di Belfast, e quella carezza al pallone negata dalla legge degli uomini
Belfast, 15 maggio 1971. L’aria profuma di pioggia e di gin. Le strade sono gonfie di rabbia e orgoglio, perché a Windsor Park, nel cuore della capitale nordirlandese, sta per andare in scena qualcosa che va oltre una semplice partita di calcio. C’è Irlanda del Nord-Inghilterra. C’è il peso della storia, dell’Impero e dei suoi margini. E c’è, sopra ogni cosa, un uomo che cammina sul filo della leggenda: George Best.

Capelli lunghi, passo da ballerino, occhi come coltelli affilati. A venticinque anni George non è solo un calciatore: è un’idea. Un’idea di bellezza, ribellione, leggerezza. Il Maradona prima di Maradona. Il rock’n’roll prestato al pallone. Quel pomeriggio, Windsor Park non è solo uno stadio: è un tempio. E tutti aspettano un miracolo.

La partita è tesa, dura, come tutte quelle giocate tra fratelli separati dal destino. L’Inghilterra è il gigante: campione del mondo nel ’66, una squadra di nomi pesanti e tacche da guerra. L’Irlanda del Nord è, come sempre, il rivale scomodo, lo zoccolo duro, l’underdog romantico. Ma quando George Best è in campo, le distanze si cancellano.
Minuto ventisette del primo tempo. L’azione sembra spegnersi. Gordon Banks – il portiere inglese che ha fatto piangere Pelé – raccoglie il pallone tra le mani dopo un’azione confusa. Fa qualche passo per rilanciare, si guarda attorno. In quel momento, Best è lì, invisibile come un’ombra.

E poi accade. George gli arriva alle spalle in silenzio. Un battito di ciglia. Con la punta del piede sfila il pallone dalle mani del portiere, senza toccarlo, senza fallo. Una carezza rapida, furba, perfetta. Banks si gira e trova il nulla. Il tempo si ferma. Best avanza, tocca il pallone con calma, lo spinge verso la porta vuota. Gol.
Ma l’arbitro scozzese Alistair MacKenzie ha già il fischietto in bocca. Braccio alzato. Gesto netto: fallo, gioco pericoloso. Il gol non vale. La rete resta vuota, ma non conta.


15 maggio 1971, Irlanda del Nord-Inghilterra 0-1
Best sorride. Non protesta, non urla. Sa già tutto. Sa che il suo gesto ha oltrepassato il limite concesso al genio. Non era una furbata: era arte. E l’arte, a volte, fa paura. Lo stadio, per qualche secondo, resta senza suono. Poi esplode: fischi, applausi, urla. Gli spettatori inglesi si sentono beffati, quelli nordirlandesi traditi. Ma tutti, nessuno escluso, sanno di aver visto qualcosa che non si ripeterà.
Il tabellino finale dirà 0-1, con gli inglesi che andarono in gol con Allan Clarke a dieci minuti dalla fine. Ma il pallone, per qualche istante, ha raccontato una verità più grande della competizione: che il genio non si giudica con il regolamento.
Negli anni a venire, quel gol fantasma diventerà leggenda. Raccontato nei pub e nei cortili, nei libri e nei documentari. Il video, sgranato, circola ancora oggi come una reliquia. Nessuna tecnologia VAR avrebbe potuto cancellare quella magia, ma nemmeno confermarla: troppo sottile, troppo sfuggente, troppo Best.
“Se lo avesse fatto Pelé, lo avrebbero messo sui francobolli”, disse una volta un giornalista irlandese. E forse aveva ragione.
George Best morirà nel 2005, consumato dagli eccessi e dalla solitudine. Ma quel gesto – quel piccolo furto onesto, quel colpo di teatro – resterà per sempre il simbolo di ciò che era: un uomo troppo grande per il campo, troppo libero per le gabbie, troppo poeta per essere capito da un arbitro con il fischietto in bocca.

E chissà se quella notte, tornando a casa, anche Gordon Banks sorrise. Perché, in fondo, solo i più grandi portieri possono dire di essere stati beffati da George Best. Anche se solo per un secondo. Anche se il gol non fu mai dato.
Nel 1971, l’Irlanda del Nord era sull’orlo della guerra civile. Il conflitto tra unionisti e repubblicani – che avrebbe insanguinato le strade per trent’anni – cominciava a prendere forma. In questo clima teso, George Best rappresentava un’eccezione: amato da protestanti e cattolici, icona comune in un paese diviso. Il suo talento, come la sua vita, sfuggiva alle semplificazioni.
Mario Bocchio