Quarant’anni dopo, lo Scudetto del Verona è ancora un miracolo
Apr 9, 2025

Di quei giorni resta il vento. Un vento che sapeva di vino e di ferro, che soffiava dalla Lessinia giù fino al Bentegodi, portando con sé un’idea impossibile: vincere lo Scudetto. Eppure accadde. Primavera 1985: l’Hellas Verona è campione d’Italia. E il mondo, per un attimo, si ferma a guardare.

C’erano i riflettori puntati su Napoli, dove Maradona aveva appena messo piede. C’era Torino, con Platini che incantava e Boniek che correva. C’era Roma, con Falcão e Pruzzo, e Milano, ancora ferita ma pronta a rialzarsi. Nessuno avrebbe scommesso su Verona. Nessuno, tranne Osvaldo Bagnoli.

“Non avevamo bisogno di parlare tanto. Bastava guardarci negli occhi”, racconta oggi Domenico Volpati, uno dei fedelissimi di Bagnoli. “Lui sapeva leggere l’anima dei giocatori. Ti metteva al posto giusto, ti dava fiducia. E noi diventavamo giganti”.

Osvaldo Bagnoli portato in trionfo

Osvaldo, il “Mago di Porta Vescovo”, era nato a Milano, ma aveva il cuore adriatico e la testa contadina. Parlava con l’accento lombardo e la saggezza friulana. Niente proclami, niente frasi fatte. Solo un’idea: il gruppo.

E che gruppo. Elkjaer, il vichingo senza una scarpa, che correva con rabbia e bellezza. Briegel, il tedesco venuto dalla pista d’atletica, che spazzava via tutto come un bulldozer. Galderisi, piccolo e guizzante come una scintilla. Di Gennaro, cervello fino e piedi di seta. E poi Tricella, leader silenzioso, e Ferroni, Marangon, Fanna… operai del miracolo.

Stadio “Marcantonio Bentegodi”, 19 maggio 1985. I calciatori del Verona festeggiano la vittoria del campionato di Serie A 1984-’85

Il campionato 1984-‘85 fu il primo con l’arbitro sorteggiato: via ogni sospetto, ogni regia occulta. Fu anche il più incerto, il più umano. Verona partì forte e non si fermò più. Il 12 maggio, a Bergamo, bastava un punto per la gloria. Finì 1-1. Al fischio finale, Elkjaer salì in curva, Bagnoli si sciolse in un sorriso, e la provincia tutta esplose.

“Non ci credeva nessuno, e invece l’abbiamo fatto”, diceva il presidente Celestino Guidotti, con gli occhi lucidi. “Questa è la vittoria della gente semplice”.

E davvero lo fu. Niente voli charter, niente yacht. Solo pullman e trattorie. Solo vino bianco e abbracci. “Facevamo la spesa al mercato, come tutti”, ricorda Francesco Stefani, storico massaggiatore. “E la gente ci fermava, ma non per chiedere selfie. Solo per dire: grazie”.

Karl Heinz Rummenigge e Hans Peter Briegel dopo Inter-Hellas Verona del 1985

Oggi, quarant’anni dopo, il Bentegodi ha il volto più rugoso ma lo stesso cuore. I ragazzi che avevano vent’anni nel 1985 ora ne hanno sessanta. Molti hanno il poster in salotto, altri la maglia firmata. Alcuni, ancora, raccontano quella stagione come si racconta un amore di gioventù.

Perché quel Verona fu davvero un amore. Breve, intenso, irripetibile. Il calcio italiano, dopo, è tornato alle sue gerarchie. Le grandi sono tornate a vincere. Ma il ricordo di quel titolo rimane come una ferita bella, un tatuaggio dell’anima.

“Non so se fu solo calcio”, dice ancora Volpati. “Forse era qualcosa di più. Era una possibilità. Che anche i sogni, a volte, passano davvero da qui”.

Quella stagione fu quindi l’unica vera rivoluzione dal basso della storia della Serie A. Non perché le grandi fossero deboli, ma perché una piccola fu perfetta. In un anno irripetibile, in un sistema che si credeva invincibile, accadde l’impossibile.

Come scrisse Gianni Mura in quei giorni: “Il Verona non ha vinto contro qualcosa, ha vinto per qualcosa. Ha vinto per dimostrare che il calcio può ancora essere una faccenda collettiva, non solo un fenomeno di potere”.

Mario Bocchio

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