Wladimir, il terzino rosso della Democrazia Corinthiana
Apr 10, 2025

In campo per il Corinthians, fuori per il popolo: vi raccontiamo la storia di Wladimir Rodrigues dos Santos, simbolo silenzioso di una delle rivoluzioni più affascinanti del calcio mondiale.

“Di solito il calcio non cambia il mondo. Ma in certi momenti, può indicare la strada. E in Brasile, all’inizio degli anni Ottanta, undici uomini ci provarono davvero”

Non erano rivoluzionari armati, né studenti in piazza. Erano calciatori. Giocavano a São Paulo, indossavano la maglia bianconera del Corinthians, uno dei club più popolari del Paese. Tra loro, il più carismatico era Sócrates, il “dottore” con la barba da intellettuale e il pugno chiuso. Ma accanto a lui, a correre instancabile sulla fascia sinistra, c’era Wladimir Rodrigues dos Santos. Meno appariscente, più riservato, ma con lo stesso fuoco dentro. Un comunista convinto, un operaio del pallone. Un simbolo. Il capitano.

Wladimir in azione

Wladimir nasce a São Paulo il 29 agosto 1954, in una famiglia semplice del quartiere di São João Clímaco. È nero, cresce in un Paese che si racconta come una democrazia razziale, ma che ogni giorno gli mostra il contrario. La povertà, le discriminazioni, l’invisibilità sociale sono parte del suo orizzonte fin da bambino.

In quel Brasile ancora rigidamente gerarchico, essere nero significava dover dimostrare due, tre volte di più. Wladimir non solo riesce a emergere, ma lo fa senza mai rinunciare alla propria identità, con fierezza e lucidità politica.

Fin da giovane, si distingue per la disciplina, il rigore e una forte coscienza di classe. Non dimentica mai da dove viene, né cosa significhi, per un ragazzo nero, povero, entrare in un mondo ancora profondamente elitario come quello del calcio professionistico.Entra nelle giovanili del Corinthians nel 1971, a 17 anni. Due anni dopo è già in prima squadra. Il suo ruolo è il terzino sinistro, ma non è il classico difensore ruvido: ha corsa, tecnica, intelligenza tattica. Soprattutto, ha una costanza impressionante. Gioca 806 partite ufficiali con il “Timão”, diventando il calciatore con più presenze nella storia del club, un record che ancora oggi resiste. In campo, non è un protagonista da copertina, ma è un punto fermo. Fuori, è uno spirito critico. Uno che osserva, riflette, prende posizione.

Sócrates, Casagrande e Wladimir

In un Brasile ancora sotto la cappa della dittatura militare (1964-1985), parlare di politica era pericoloso. Ma Wladimir non ha mai nascosto le sue idee. Vicino al Partito Comunista Brasiliano, è tra i pochi calciatori a esporsi pubblicamente in quegli anni. Rifiuta compromessi, diffida dei dirigenti corrotti, parla con i lavoratori, partecipa a incontri nei sindacati.

Quando Sócrates arriva al Corinthians nel 1977, i due si trovano immediatamente. Sono diversi – uno medico, l’altro uomo di quartiere – ma complementari. Attorno a loro nasce un gruppo coeso, con altri giocatori pensanti come Casagrande e Zenon. Nel 1982, la svolta: insieme decidono di proporre un esperimento rivoluzionario, in totale contrasto con l’autoritarismo del calcio brasiliano e del Paese.

La Democracia Corinthiana non è solo un’idea romantica. È un progetto concreto. Tutte le decisioni all’interno del club – dall’orario degli allenamenti alla scelta dell’allenatore, dalla gestione dei premi a quella dei trasferimenti – vengono prese tramite assemblee collettive. Ogni membro ha un voto, dal presidente al magazziniere. È un’autogestione radicale, ispirata ai principi della democrazia diretta.

Wladimir non è il portavoce mediatico – questo ruolo spetta a Sócrates – ma è l’anima solida e coerente del gruppo. Mentre altri vivono la democrazia come un’occasione intellettuale o generazionale, lui la vive come una necessità storica e morale. La Democrazia Corinthiana diventa anche un simbolo politico: i giocatori partecipano alla campagna “Diretas Já”, per il ritorno delle elezioni dirette in Brasile. Indossano maglie con scritte come “Voto já”, scendono in piazza, parlano ai comizi.

Wladimir, che si definisce “marxista e corinthiano”, è una figura di riferimento anche per i movimenti popolari. In un’epoca in cui il calcio tendeva a evitare ogni frizione politica, lui sceglie lo scontro con coraggio. Non per provocazione, ma per convinzione.

Sócrates, Osmar Santos e Casagrande durante una manifestazione elettorale di “Diretas Já”, 1984

La stagione 1982-‘83 è la più gloriosa per la Democrazia Corinthiana: la squadra vince due campionati paulisti consecutivi, giocando un calcio brillante e libero, sia in campo che nelle scelte dirigenziali. Ma la pressione cresce. I vertici del club, i media conservatori e parte della tifoseria non accettano questo esperimento “sovversivo”.

Nel 1984 Sócrates parte per l’Italia (alla Fiorentina), sancendo di fatto la fine dell’esperienza. Ma Wladimir resta. Lo farà ancora per anni, fino al 1987, quando lascerà definitivamente il Corinthians per chiudere la carriera nel Santo André. Avrebbe potuto trasferirsi altrove, guadagnare di più, ma ha scelto la fedeltà.

In Nazionale, ha dsolo disputato 5 gare con il Brasile, non è mai stato valorizzato come meritava. Anche questo è un riflesso delle sue idee, scomode per il sistema. Non giocò né al Mondiale ’78 né in Spagna ’82, forse per ragioni tecniche, forse per motivi politici.

Dopo il ritiro, Wladimir non ha cercato la ribalta. Non è diventato opinionista né dirigente. Ha lavorato per un periodo come consulente per il Ministero dello Sport, è stato coinvolto in iniziative sociali a São Paulo e ha mantenuto i suoi legami con i movimenti popolari.

Casagrande, Sócrates e Wladimir furono invitati da Rita Lee a partecipareal suo concerto nel novembre 1982, anno in cui iniziò la Democrazia Corinthiana

È rimasto un riferimento morale, uno di quelli che “non si vendono”. In un’intervista recente ha dichiarato: “Il calcio oggi ha dimenticato la sua responsabilità sociale. Noi, negli anni ’80, cercavamo di costruire qualcosa che avesse senso anche fuori dal campo.”

A oltre quarant’anni di distanza, la Democrazia Corinthiana è ancora studiata nelle università, raccontata nei documentari, tatuata sulla pelle di chi crede che il calcio possa essere anche cultura, politica, resistenza. E la figura di Wladimir – più silenziosa, meno celebrata rispetto a Sócrates – è forse quella che meglio incarna la coerenza di quell’esperienza.

Essere nero, povero e di sinistra nel Brasile degli anni Settanta e Ottanta voleva dire portare sul proprio corpo i segni della resistenza. Wladimir lo sapeva. E lo viveva ogni giorno. Il suo non era solo un impegno ideologico: era un atto di presenza politica costante, dentro e fuori dal campo. Ogni corsa sulla fascia, ogni tackle, ogni dichiarazione era anche un modo per affermare la sua esistenza contro uno Stato e un sistema che tendevano a marginalizzare corpi come il suo.

Non a caso, è diventato un simbolo per molti giovani afrobrasiliani. Un esempio raro di sportivo che non si piegava ai cliché rassicuranti, che non si prestava alla spettacolarizzazione del corpo nero come mero strumento di intrattenimento. Wladimir parlava di diritti, di redistribuzione, di cultura. E lo faceva con l’autorevolezza di chi sapeva cosa significava essere escluso.

In un tempo in cui lo sport è sempre più spettacolo e sempre meno pensiero, la sua storia resta un faro. Non per nostalgia, ma per memoria attiva. Perché ci ricorda che anche in maglietta e pantaloncini, si può fare la rivoluzione.

Mario Bocchio

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