Il sole sbuca pallido e freddo dalla coltre di nubi. I raggi scendono obliqui e intaccano appena la brina che si è posata nella notte che doveva essere stellata. Lungo il viale alcuni temerari sfidano il freddo e il grigio del cielo per la passeggiata quotidiana. Sulla panchina di pietra una giovanissima coppia si lancia in effusioni. E’ la loro capanna, un po’ ruvida, un po’ fredda, ma piena di passioni e di promesse.
E’ una domenica normale, di un mese normale, di un anno normale. Una domenica in Piazza d’Armi, lungo i vialoni con i “castagnè” carichi di storia, la “Bealera del Mulin brusà” che triste e pigra scorre tra gli scatoloni di detersivi e lattine di birra, con pochi pesci che si arrabattano in cerca di cibo. E la lunga sequenza di case vecchie e malandate con le strette lobie cariche di panni stesi, i vecchi che fanno capolino dietro le tendine di finestre piccole, in alloggi umidi con i muri carichi di muffa. Qualche bambino in cerca di emozioni s’avventura nel fango di quello che un tempo era il parco giochi, con le vasche piene di sabbia che si sono trasformate in luogo sicuro per i cani in cerca di orinatoi.
La Saviglianese del primo dopoguerra.
Fa persin pena vedere Savigliano trasformarsi ed ingrigirsi. Neppure il sole, che adesso si fa più arrabbiato, riesce a dare una pennellata di pulito.
Eppure Piazza d’Armi è il parco di Savigliano, con i suoi pini e i suoi abeti, i sentieri disegnati da un architetto in vena di romanticismo, le panchine poste al riparo dalle lunghe fronde dei sempreverdi. Non ci sono più gli artiglieri alpini a pestare l’erba con moschetto, scarponi e ghette. Adesso, superata la soglia del Duemila, la gente non pensa più alla guerra. In Piazza d’Armi si va per passeggiare, respirare aria non inquinata, fare un po’ di ginnastica distensiva e abbandonare, per un attimo, i troppi crucci di questa vita moderna.
Il tempo scorre veloce. Il campanile di S. Andrea batte le due, ma il “ciuchè” della parrocchia va sempre avanti. in tanti anni di controlli i tecnici degli orologi non sono mai riusciti a mettere a posto il meccanismo.
Ogni mese bisognerebbe far tornare indietro le lancette di dieci minuti buoni, altrimenti Capodanno rischia di cadere il 30 dicembre. Ma i rintocchi che coprono di frastuono la campagna coperta di freddo, sono come un segnale. E’ giunta l’ora di uscire dalle tane, dal caldo e dal tepore delle case. Oggi la Saviglianese gioca al “Morino” e ha bisogno di tutti. Già, perché in Piazza d’Armi c’è anche il vecchio e glorioso “Morino”, lo stadio, il campo, o, come raccontano i nostri vecchi, la “tana dei Maghi”.
Il fantastico poker d’assi, Gentile, Donalisio, Di Leone, Peirone.
Il “Morino” è il sogno della domenica per molti saviglianesi. Un’area grande, immensa, coperta di verde e di ricordi. La tribuna vecchia come il campo, troppo vecchia per tutti, con gli scalini che possono raccontare la storia di molte battaglie, le docce ancora in comune, padroni di casa e ospiti uniti, l’ideale per “ragionare” dopo un incontro travagliato in campo. E la direzione con i gagliardetti, le coppe, le foto ricordo di molti che non ci sono più. E un bar dove la barbera verace si mescola ai panini imbottiti di salame di campagna e la classifica viene scritta sui fogli che servono per grandiose e rumorose partite a scopa.
Vecchio e caro “Morino”, con la rete “mangiata” a furia di urla e insulti (all’arbitro, come sempre), le lose per permettere ai tifosi del prato di non bagnarsi i piedi, il deposito dei cicli e motocicli, cioè il muro di cinta e una grande scritta. E ancora gli altoparlanti, i diffusori, vecchi come il Savigliano, che fra note stonate e parole confuse lanciano in campo i messaggi di Rino Givo e Tino Zerbini … “seve maghi e cô campion”. L’inno dei “Maghi”, che gira e rigira su una cassetta tenuta nascosta da Ciano con estrema religiosità. Quando il tifosissimo, il cuore rossoblù, la ascoltò per la prima volta, aveva gli occhi rossi, la pelle d’oca e una lacrima che spuntava su quel suo viso gioioso. Maghi, parola magica. Maghi, primo amore.
Lo storico doppio salto di categoria dalla Promozione alla C2, con la partita al Comunale di Torino contro l’Acqui.
Il segnale è stato dato da quel vecchio e amato campanile. I piccioni più esperti non si alzano più in volo quando il batacchio finisce sopra la conca di bronzo.
I più giovani, gli ultimi nati, invece, svolazzano tutt’intorno, per poi tornare ai nidi, nel silenzio di questa domenica d’inverno. Da Piazza Cavour, con passo lesto, s’avvia Monge, decano dei tabaccai, tifoso sempre presente. “Oggi è giornata dura, fa freddo ed è tutto ghiacciato. Vinceremo? Non vinceremo?”.
Intanto il “Morino” si anima. I giocatori rossoblù escono fuori dagli spogliatoi con le tute sponsorizzate, inseguiti da Nino, il massaggiatore, con le mani ingombre di vasetti profumati. Meo Savoia, invece, attacca le bandiere ai vecchi pali arrugginiti. Un tricolore, per far capire a tutti che è una partita importante, e uno stendardo rossoblù, perché oggi è festa, la Saviglianese gioca in casa. Ma si sa, Savoia ha dovuto aprire bottega, servire il vino e gli amari ai primi arrivati e cominciare a sorbirsi i commenti dei giocatori di scopa, del settebello sprecato, del due bello lanciato sul tavolo con troppa imprudenza, della napula mancata per poco. Ecco perché è in ritardo.
Il gol promozione di Di Salvatore al Morino contro la Biellese.
Arrivano già in tuta i ragazzini delle formazioni giovanili. Il loro compito è preciso: devono recuperare i palloni persi durante la partita, i tiracci alle stelle, gli alleggerimenti affrettati. Ma i maghetti non vogliono mai fare la sentinella alla porta della Saviglianese. Per loro la porta rossoblù è stregata e non ci sarà bisogno di recuperare palloni. Il loro lavoro deve svolgersi dall’altra parte, perché gli attaccanti saviglianesi sono scatenati e promettono spettacolo e gol.
Si apre anche il botteghino. E’ arrivato Gino Villavecchia, decano della Biglietteria del “Morino”, uomo importante e insostituibile nella politica e nell’economia della società rossoblù, sempre puntuale al Comunale di Savigliano a cavallo del cavallo di ferro, la sua inseparabile bicicletta. Giacca a vento e cappello, ritira biglietti e libroni e si insedia nel bunker della biglietteria. La sua faccia sempre sorridente, la sua voglia di trovare una parola per tutti, la sua capacità straordinaria di alleggerire con una battuta ogni situazione , anche la più pesante, il suo viso amico sono da anni l’immagine fissa dei tifosi rossoblù al “Morino”.
Senza Gino non c’è partita e non c’è incasso: grazie per questa incrollabile fede rossoblù.
Il guardiano è Saule, pescatore e un po’ bracconiere, pubblico ufficiale della Saviglianese. “Chi non ha il biglietto non entra, chi ha dimenticato la tessera a casa non entra, chi è rimasto senza soldi non entra”, insomma, a sentire lui si dovrebbe giocare a porte aperte, ma a spalti vuoti. Intanto, si fa vivo anche Iuse. Chi vincerà? Chi perderà? Si comincia a discutere nell’osteria di Savoia, pardon nel bar: “Si, questo non è una piola, è un bar vero e proprio”. Iuse fa l’analista, nel senso che verifica tecnicamente il, rendimento della squadra. Se gioca questo perdiamo, se gioca quell’altro perdiamo lo stesso. Se Tizio spinge sulla fascia vinciamo, se Caio non perde la concentrazione vinciamo. E via così: il pareggio con la mezzala che fa movimento, il pareggio per lo schema a tre punte. La compagnia s’ingrandisce, mentre Gino Villavecchia continua a staccare biglietti e Saule a lanciare i suoi anatemi.
Il prato comincia ad animarsi di giacconi e cappotti con dentro gente che ha freddo. In tribuna arrivano i giovani, quelli che urlano di più. Poi il signor arbitro e i signori guardalinee hanno l’ennesima disputa con il guardiano della porta: tessere, biglietti, telegrammi. Non si entra, non c’è nulla da fare. Interviene Ciano, mette le cose a posto. La disputa si esaurisce con Saule che brontola: “Se dovessi far entrare tutti quelli che hanno le tessere …”.
Finalmente il sole vince la sua battaglia. Si è alzata una piccola brezza, fredda che taglia la faccia, ma almeno le nuvole si spostano e il “Morino” si illumina. La truppa rossoblù è al gran completo. Tutti quelli che amano questa squadra e questa società hanno sfidato il freddo e sono arrivati al campo. Sono arrivati con un pullman anche i tifosi della squadra avversaria con qualche bandiera e la voglia di urlare. Mancano pochi istanti al via della sfida. Nei diffusori si sente soffiare.
La Saviglianese nella stagione 1986-’87.
L’annunciatore sta controllando che la sua voce esca, che le parole si possano almeno sentire: è l’inizio dello spettacolo. La formazione ospite scorre rapida, qualche nome sbagliato, accenti sulle lettere sbagliate. Solo i nomi degli atleti conosciuti non vengono malamente interpretati. Poi tocca alla formazione della Saviglianese che, anche se gioca in casa, per dovere di ospitalità, si deve leggere per ultima. Portiere, marcatori, mediano, … E tra nome e nome la cadenza di qualche secondo, diciamo tre o quattro, per permettere ai tifosi ultrà di sbraitare “alè, alè”, ma senza troppa convinzione. I tifosi più furbi sono quelli che hanno pagato il biglietto per il prato e, invece, si sistemano sulla tribunetta che si trova davanti agli spogliatoi. Costruita molto artigianalmente con alcuni pezzi di recupero e qualche camionata di ghiaia, invenzione estiva a proprio carico di persone che sognavano il grande stadio, viene presa d’assalto. Di là almeno il sole picchia con maggiore intensità, non come dalla parte della vecchia tribuna del “Morino”, sempre all’ombra e sempre ghiacciata. I tifosi di questa e dell’altra squadra sono pigiati come sardine in una scatoletta sottovuoto, ma almeno non patiscono il freddo di questa giornata. S’inizia con la tribuna, quella vera, quasi vuota, la rete di recinzione coperta di mani con guanti pesanti e gente che soffia, l’osteria di Savoia ancora piena di ritardatari indecisi se uscire o rimanere al calduccio in attesa delle urla dei colleghi tifosi, due vigili urbani inattivi che controllano l’orologio sperando che i novanta minuti passino, in fretta, e la dirigenza schierata. Il presidente Luigi Bordone in tribuna a scalpitare come un cavallo, a malmenare la povera sedia di legno e a seguire il gioco con scatti delle gambe e movimenti della testa; Ciano Longanizzi, appiccicato alla rete, braccia, testa, gambe; Marco Orio, in piedi nel vestibolo, pronto a scattare, e tutti gli altri disseminati lungo il recinto ad incitare o criticare. Quarantacinque minuti scorrono veloci, soprattutto se gli avversari sono rassegnati alla sconfitta.
Basta un bel colpo di testa del solito bomber, una punizione alla brasiliana e un cross deviato nel sacco con una prodezza, per avere il cuore che torna ai battiti regolari. E per avere, finalmente, un po’ di urla e di coretti. Tifosi maligni, sempre pronti ad urlare quando gli avversari chinano la testa.
Un intervallo al “Morino”, cioè bar stracolmo, parole e parole, discorsi inutili, qualche incontro imprevisto, molti sorrisi. Nino massaggia gambe e braccia; Ciano riattacca l’inno; Bordone va su e giù senza pazienza; il mister si dilunga in trame tecniche. Ma il più è fatto. Quando i tifosi sono sereni vuol dire che neanche una bufera improvvisa può modificare l’andamento della gara. Secondo tempo, o ripresa. Altre due prodezze, bandiera bianca alzata dai poveri e d avviliti avversari e coro stonato, ma finalmente valido che si fa sentire. Ritornello malizioso e amaro per gli avversari. Spariscono le bandiere degli ospiti e qualcuno guadagna silenziosamente l’uscita. Ne hanno abbastanza. Così dalla tribuna del “Morino” si leva sempre più potente: “Per i miseri implora perdona, per i deboli implora pietà”.
Poi abbracci, applausi, complimenti. I tifosi sfollano, se ne vanno anche i giocatori, i dirigenti si danno appuntamento per festeggiare. Un’altra domenica è passata, un’altra partita ha lasciato nel campionato il segno della Saviglianese. Sul “Morino” cala la nebbia, mentre il silenzio torna ad essere il padrone incontrastato. E Savigliano, lentamente, si addormenta con i suoi tifosi.
Sono passati solo tre lustri da questo quadro meraviglioso di una domenica qualunque di una delle tante partite dei “Maghi”. Il “Morino” ha cambiato volto, molte persone non ci sono più, anche se, fedelissimi, ci guardano e ci sostengono da lassù, ma una sola cosa è rimasta immutata e lo rimarrà per sempre: l’incrollabile fede rossoblù, che ogni domenica pomeriggio ci accompagna su tutti i campi, ovunque si vada!
Mario Bocchio