Un colpo di sonno. La Peugeot cabrio Pininfarina che sbanda, vola via e diventa un ammasso di lamiere. Là dentro c’è Giuseppe Marino, 23 anni, difensore palermitano con un futuro da titolare nella difesa dell’Inter. Almeno così gli avevano promesso e così scrivevano i giornali. Ma la carriera di Marino conosce un brusco stop in quella maledetta domenica: 21 giugno 1992. L’inizio dell’estate che si trasforma in un guaio. Giuseppe Marino, palermitano del quartiere Romagnolo, finisce in ospedale. Se la caverà senza problemi, ma il treno del grande calcio, ovvero l’Inter e una maglia da titolare, non lo aspetta.
Marino stava tornando a Palermo dopo aver disputato e vinto (ai supplementari) lo spareggio per restare in B, tra il suo Taranto e la Casertana, sul neutro di Ascoli Piceno. Sceso dal pullman con la squadra, dopo la grande festa, Marino si era infilato nella sua Peugeot e stava rientrando dalla Puglia: 610 chilometri di strada. Il destino gli gioca un brutto scherzo proprio alla fine della Palermo-Catania. “Ero arrivato quasi a Brancaccio, quindi a casa – ha ricordato a PalermoToday – e mi sono addormentato. La mia auto volò finendo nell’altra carreggiata”. Quando riapre gli occhi si trova ricoverato nel reparto di neurochirurgia del Civico per un edema cerebrale contestuale a un trauma. Ha riportato anche la frattura di una spalla, “varie ferite lacero-contuse e la rottura dell’omero – dice Marino – purtroppo il sogno di giocare nell’Inter è finito lì”.
Era la coda finale della stagione 1991-‘92, quella che vide il Palermo di Di Marzio retrocedere in C, anche per colpa di quel famoso Piacenza-Taranto dell’ultima giornata, vinto dai pugliesi. Marino gioca bene, salva un gol al 90′, stoppa De Vitis e un giovanissimo Pippo Inzaghi. Souvenir di un calcio che non c’è più.
Marino parla, si ferma, schiarisce la voce, riparte. Oggi è un “ragazzone” di 54 anni. Sguardo fisso sul presente, memoria che schizza al periodo d’oro. Quello a cavallo tra i ruggenti Ottanta e i mitici Novanta. Gli occhi sono gli stessi di quelli che brillavano nelle “figu” Panini. I capelli, no.
Ma per entrare nel cuore della sua storia dobbiamo ripartire dalle origini. Marino, classe 1969, inizia a giocare nel Favara, in Interregionale. È un difensore centrale, ma all’occorrenza centrocampista “basso”. Non è ancora maggiorenne quando va a Trapani in C2. Lá è sempre titolare. “L’allenatore, Franco Rondanini, che per me è stato come un papà, era molto amico di Giancarlo Beltrami, il direttore sportivo dell’Inter. Che mi studia e mi porta in nerazzurro dopo che impressiono tutti in un torneo in Svizzera. Ho 18 anni, vado a Milano nell’anno dello scudetto dei record con Trapattoni. Annuso la prima squadra, mi alleno con i big e mi innamoro di Diaz e Matteoli, due fenomeni. Nel frattempo sboccio con la Primavera, dove sono il capitano e vinciamo il tricolore, grazie anche ai miei gol: 12. In rosa con me ci sono pure il portiere Mondini, Scapolo, Gallo, Morello e un giovanissimo Marco Delvecchio L’allenatore è Giampiero Marini, campione del mondo nell”82″.
Una stagione che vale l’arrivederci con l’Inter dei grandi. Marino viene piazzato in prestito al Vicenza che ancora si chiama Lanerossi. “Non c’era più Baggio, ma trovo il mitico Eraldo Pecci e Cantarutti. Gioco con la maglia numero 10, a centrocampo, e faccio un figurone”. È l’estate del 1990, quella del ritorno all’Inter. Dove fischia ancora l’ultimo Trap nerazzurro. “Purtroppo inizio l’anno con la pubalgia, ma quando guarisco entro in pianta stabile in prima squadra. Trapattoni un giorno mi prende da parte e mi dice: ‘Conto su di te, presto giocherai’. Invece non mi fa entrare mai, neanche quando a Bergamo mi arriva un seggiolino mentre mi sto riscaldando a bordo campo. Quanti aneddoti mi legano al Trap. Ricordo quando mi disse: ‘Venditi quella Volvo, è pericolosa’. Colleziono una serie infinita di panchine, 20 in tutto, senza mai giocare. Ma non posso lamentarmi. Vinciamo la Coppa Uefa e il premio destinato ai giocatori tocca anche a me: 52 milioni!”.
Quell’Inter sfiora lo scudetto ma torna a vincere in Europa dopo 26 anni. È la squadra dei tre tedeschi (Matthaus, Brehme, Klinsmann), della vecchia guardia cresciuta in casa (Bergomi, Zenga, Ferri). Sono gli anni della Milano da bere. “Che campioni – sospira Marino – e che notti. Uscivo con Klinsmann e Stringara. Dormivo in albergo in zona Cairoli e Nicola Berti per un periodo mi offrì ospitalità. Ogni notte arrivavano cinque-sei fotomodelle bellissime, sempre diverse…”. Notti magiche anche in campo. “Ricordo quella cavalcata splendida in Europa: la trasferta al Marakana di Belgrado, con l’Inter che decide di portare un cuoco dall’Italia per paura di subire avvelenamenti, e la semifinale a Lisbona con lo Sporting: dopo la partita siamo andati tutti in discoteca in taxi. Ma Trapattoni non la prese bene: ci venne a prendere e dopo mi punì lasciandomi fuori dall’allenamento”.
Nei tabellini di quella Coppa Uefa spunta più volte il nome di Marino. “Primo turno, partita di ritorno, giochiamo a Verona con il Rapid Vienna. Prometto a mia madre di farmi vedere in tv ma per esser inquadrato dalla televisione dovevo inventarmi qualcosa. Così quando Berti segna, scatto dalla panchina e lo inseguo fino alla pista d’atletica”. Missione compiuta: la Rai lo “pesca” mentre col giubbotto largo di almeno una misura in più, corre sul prato veronese ebbro di gioia. E quando Klinsmann fa il gol decisivo nei supplementari le telecamere lo catturano ancora mentre esulta con Trapattoni. È uno dei flash più belli della carriera di Marino. Che è legato a Klinsmann, come uno dei momenti peggiori, anche se là il panzer tedesco non ha colpe. “L’incidente l’ho fatto con la Peugeot che mi aveva venduto Jürgen. Quell’auto era stata un regalo dopo tre ospitate al Processo del Lunedì”.
Dopo lo schianto, l’Inter lo richiama alla base. Nel frattempo il Trap è andato alla Juve, c’è Bagnoli. E Totò Schillaci. “Dovevo fare il titolare, è quello che mi avevano detto in Primavera. Ma quell’incidente ha cambiato le cose. Quando sono tornato a Milano, dopo pochi allenamenti mi hanno mandato di nuovo a Taranto ma là gioco pochissimo. Vado a Modena, è il 1993. Ritrovo Beppe Baresi, con cui mi divido la difesa. Fino a quando un giovane mi ruba il posto: è Lele Adani, ‘Lupetto’, persona squisita, impossibile non volergli bene. Anche se il fenomeno in quella squadra è un certo Enrico Chiesa. Fortissimo”. Dopo Modena, la carriera imbocca una discesa senza fine. Turris, Marsala, Catania (“qua ho conosciuto un grande uomo a fine carriera, Pasquale Marino”).
L’ultima tappa si chiama Australia: “Che posto magnifico, giocavo nel Club Marconi, mi pagavano benissimo, c’erano tanti italiani, vivevo a Sidney e stavo da Dio”. Nel frattempo Marino ha 30 anni e i Novanta sono finiti. Va in prova a Catanzaro con Tebaldo Bigliardi, si ricicla nelle Marche come allenatore-giocatore a Tolentino e Recanati in Eccellenza. Poi il ritorno a casa. La scuola calcio a Santa Flavia, il patentino per allenare i giovani e nelle serie minori.
E ora? “Sento ancora i giocatori di quella Inter, come Klinsmann che ora vive in Usa. Molte volte vado a Lucca dal mio amico Paolo Tramezzani. Abbiamo un gruppo Whatsapp con tutti i panchinari di quella squadra, ci sono anche Beppe Baresi e Marco Delvecchio. Progetti futuri? Ho ricevuto chiamate dalla Prima Categoria ma ho deciso di rifiutare perché aspetto occasioni migliori. Il sogno è quello di lavorare nel Palermo, visto che non sono mai riuscito a vestire la maglia rosanero da giocatore. O nel settore giovanile oppure come talent scout. So di avere le capacità per svolgere questi ruoli”.