“Il miglior giocatore che non avete visto”. Così il tecnico campione del mondo ’78 César Menotti definì Tomas El Trinche Carlovich, calciatore dai colpi incredibili che, senza mai imporsi nelle serie superiori, fece innamorare Maradona Allo stesso modo potremmo definire Gerry Cavallo. Codino e orecchino, la dieci sulle spalle, Baggio come mito, mancino raffinato. Cavallo è una figura d’altri tempi, calciatore purosangue che ha lasciato troppi colpi in canna.
Pisano classe ’71, Cavallo a 16 anni è la stella della Primavera della Juventus e con un futuro brillante davanti. Ma come accade spesso, le promesse non vengono mantenute, e Cavallo si ritrova a 22 anni tra i dilettanti, dove giocherà più di 200 partite, oltre ad un centinaio tra C1 e C2.In una chiacchierata a Seried24, Cavallo ha raccontato le tappe della sua lunga (e piena di aneddoti) carriera, che lo vedrà girare quasi tutto lo stivale e conquistare l’amore di tutte le piazze in cui ha giocato.
“Ho iniziato la mia carriera a 6 anni, nell’Alberone, storica polisportiva pisana degli anni ’70. Qui sono cresciuto in famiglia, tutti i bambini vivevamo nel rione San Giusto, e con le famiglie ci ritrovavamo per giocare a tombola. Lì ho giocato fino ai 12 anni, quando venni acquistato dal Torino. Io, tifosissimo della Juventus, acquistato dal Torino. Vissi un conflitto di interessi interno. Nel 1983, il Torino, soprattutto riguardo il livello giovanile, rappresentava una delle società più importanti d’Italia. Venni subito girato in prestito alla Cuoiopelli, loro squadra satellite in Toscana, dove ho giocato fino a 17 anni. Alla Cuoiopelli ho trovato la fortuna di incontrare allenatori diventati per me genitori acquisiti, Stefano Bani, Paolo Vivoli e Caprai, scherzo del destino tre livornesi tra l’altro. In sostanza, un pisano fino al midollo cresciuto in mezzo ai livornesi. Alla Cuoiopelli ho raggiunto la nazionale under 16, per poi essere notato dal Milan nell’’88”.
“Andai a Milano, accompagnato da Roberto Tancredi, che mi seguì alla Cuoiopelli, per fare un provino per il Milan. Ho avuto la fortuna di vivere tre giorni il mondo Milan nel mezzo di una delle settimane più importanti della propria storia: la squadra di Sacchi stava preparando la trasferta di Napoli, in una lotta scudetto che vincerà per 3-2, grazie alla doppietta di Virdis e ai gol di Van Basten. Durante uno di quei giorni, assistetti ad un aneddoto particolare: durante una pausa tra un allenamento ed un altro, il TG1 trasmise un’intervista di Maradona, allora capitano del Napoli, intento a provocare i milanisti: ‘allo stadio non vogliamo vedere nemmeno una bandiera rossonera’. Sentite queste dichiarazioni, Mauro Tassotti smise di giocare a biliardo, arrabbiandosi. A calmarlo fu Franco Baresi che, alzandosi dal divano mentre leggeva la Gazzetta dello Sport, si rivolse al terzino: ‘Vedi, con questa tua reazione hai fatto ottenere a Maradona ciò che voleva: la nostra rabbia. Non fare il suo gioco’. Quella scena mi fece comprendere la grandezza, in modo diverso, di due leggende quali Maradona e Baresi. I rossoneri mi avevano praticamente acquistato, mancava solamente la firma al contratto, ma io rifiutati. Mi trovai seduto all’interno degli uffici di Milanello, con d’innanzi una commissione formata da dirigenti rossoneri guidati da Ariedo Braida, con sul tavolo il contratto e la penna. Mi fecero solamente una domanda: ‘tu in che ruolo giochi?’, ‘sono un trequartista, gioco con il 10 sulle spalle’, risposi. Al che, Braida mi incalzò: ‘e che ruolo sarebbe? Si gioca o a centrocampo o in attacco’. La figura del trequartista per loro, intrisi ormai dalla mentalità del 4-4-2 di Sacchi, era un ibrido, non poteva esistere. Quando mi disse così, salì in cattedra la mia juventinità: ‘vado a giocare alla Juventus’, sentenziai, alzandomi davanti alla commissione e abbandonai quella stanza, tappezzata da foto di Cesare Maldini, Liedholm e tutti i grandi campioni rossoneri”.
Una decisione importante, nella quale è presente un aneddoto divertente: “Appena uscito dalla stanza, sentii dal corridoio Braida dire ‘Certo che questo ragazzo è estroso’. Io, pensando che fosse un’offesa, rientrai e diretto ai dirigenti mi rivolsi: ‘Io non sono estroso, sono juventino’. Roberto Tancredi, presente alla scena, tutto rosso di vergogna, chiese scusa a tutti porgendo la mano a Braida. Durante il viaggio di ritorno da Milanello non mi rivolse nemmeno una parola. Non mi lasciò nemmeno a Pisa, mi fece scendere alla stazione di Pontedera, dicendomi: ‘Dovrebbero fare un film sulla tua vita’”.
Cavallo, però, ebbe ragione riguardo quanto detto a Braida: di lì a poco sarebbe stato acquistato dalla Juventus. Il tutto grazie ad un torneo giovanile.
“Tornato alla Cuoiopelli, ebbi la fortuna di partecipare, in prestito al Fucecchio, ad un torneo a Orbassano, in provincia di Torino. Decisi di partecipare solamente per la speranza di essere notato da qualche osservatore bianconero. Arrivammo in finale, giocando alla morte: vinsi la classifica cannonieri e il miglior giocatore del torneo. Ma non mi contattò nessuno. Sul pullman piansi per tutto il viaggio di ritorno. Fino a che destino volle che, in realtà, durante il torneo si sparse la voce di quel giocatore con codino e orecchino, io, malato di Baggio, mio idolo. La Juventus mi acquistò per 350 milioni di lire nell’estate dell’’88: avevo 16 anni e mezzo. La stagione 1988-‘89 è stata la mia prima alla Juventus, in Primavera con Antonello Cuccureddu allenatore. In quegli anni la Juventus stava investendo molto sul settore giovanile, volendo andare al passo dei tempi e seguendo il ‘modello Milan’. Quella stagione, oltre a me, arrivarono Michele Serena e Federico Giampaolo (fratello di Marco), giocatori che avevano già presenze tra i professionisti, decisi a scendere nel campionato Primavera”.
Come è stato l’impatto con il mondo Juventus?
“Un sogno: abituato a guardarla alla televisione, mi sono ritrovato ad allenarmi accanto alla prima squadra. Divenni una mascotte nello spogliatoio della prima squadra, che vedeva giocatori come Brio, Scirea, giocavo con Zoff a biliardo, ero entrato nelle simpatie dei senatori, come Cabrini. Nella seconda stagione, addirittura, Zoff stesso mi veniva a prendere in convitto per portarmi al centro d’allenamento. Non mi ha mai detto altro che ‘buongiorno’ e ‘buon allenamento’”.
Nel 1990-‘91 Cavallo lascia la Juventus per andare in prestito allo Spezia in C1, assieme a Marco Moro e Federico Giampaolo. Da qui inizia un valzer di cambio di casacche che non vedrà mai più il giocatore far ritorno alla base. Spezia e Carpi in C1, Legnano in C2, per poi ritrovarsi, a 22 anni, tra i dilettanti, a Chianciano.
“Come dico spesso, l’ambiente era buono, il cavallo no. Facevo tutto il contrario rispetto a quanto dovessi per giocare a calcio. Mi ritrovai tra i dilettanti senza accorgermene. In Serie D mi sono divertito, ho vinto un paio di campionati, per poi tornare nei professionisti nel ’96, nel Pisa, a casa. Fu molto bello. Da bambino avevo due sogni: giocare con la Juventus e con il Pisa, li ho realizzati entrambi”.
Pisa, il ritorno a casa e lo screzio con D’Arrigo
“In nerazzurro andai a giocare nel 1996, in C2. Si era da poco l’era del presidentissimo Romeo Anconetani, che aveva portato la Serie A all’ombra della Torre pendente. Pisa voleva tornare nel calcio che contava. Nelle prime due stagioni ho segnato 19 gol, prima dell’arrivo, nel 1998, di mister Francesco D’Arrigo, con il quale ebbi degli screzi e mi tagliò fuori dalla squadra che poi sarebbe stata promossa a fine stagione. Penso di aver dato quello che ho potuto nelle mie stagioni al Pisa. Il mio errore fu quello di non firmare, la stagione precedente, per l’Empoli, che stava ponendo le basi dell’era Corsi che tutt’oggi è un esempio in Italia, o per la Lucchese, che mi offriva tanto. Anche in questo caso a prevalere è stato il cuore: firmai in bianco per il Pisa”.
Dopo l’esclusione da parte di D’Arrigo nel Pisa, Cavallo scende nuovamente tra i dilettanti, nel Valle d’Aosta.
“Guadagnavo il doppio rispetto a Pisa. Era un progetto ambizioso, divenni subito capitano, c’erano i presupposi per far bene, ma anche in questo caso, lasciai. Firmai per il Castelnuovo Garfagnana, in provincia di Lucca, dove allenava Giancarlo Favarin, dove ho vinto il campionato”.
Poi ancora Castrense, Grosseto, Brindisi, dove tutt’oggi mantiene un grande rapporto con la tifoseria, Ferentino, Nardò, Potenza e Vigor Lamezia.
Al termine della propria carriera, Cavallo è riuscito a collezionare 25 presenze in C1, 72 in C2 e oltre 200 in Serie D.
Insomma, una carriera trascorsa quasi esclusivamente nelle serie minori. Hai qualche rammarico?
“Passare da giocare nella Primavera Juventus, a contatto con tanti campioni, alla Serie D ti fa capire i tuoi errori. Ma quando anche in D l’imperativo è vincere, quando piazze come Brindisi investono su di te, quando senti l’amore della gente, non guardi più la categoria e dai sempre il massimo, giochi la tua personale serie A. Ho preferito esser stato amato da protagonista in serie minori che stare a guardare giocare gli altri in serie B. Lungo tutto il corso della mia carriera ho avuto la fortuna di girare tutta Italia, dal Salento alla Valle d’Aosta, e ovunque sono riuscito ad instaurare un rapporto magnifico con la gente. Tutt’oggi, quando faccio visita a città dove ho giocato, continuo a ricevere un calore immenso“.
“Guardando le partite oggigiorno, vedo tanti giocatori che commettono molti, troppi, errori concettuali, anche da parte di ragazzi di 28, 29 anni. Il mio rimpianto è quello di non aver avuto la maturità di adesso a 19 anni. All’epoca ero troppo impulsivo. Non ho avuto la fortuna, pensando a giocatori come Massimiliano Allegri, di aver avuto al mio fianco uomini come Galeone, qualcuno che avesse sempre creduto alle mie capacità. Ma, per concludere, come ripeto sempre: il calciatore è una cosa, il giocatore un’altra. Io sono stato e sono tutt’ora un calciatore”.