Haiti cerca un allenatore per arrivare al Mondiale di calcio e lo chiede all’Italia. Arriva un signore sconosciuto che guida la squadra alla qualificazione, ma poi qualcosa si rompe e in panchina contro l’Italia in Germania Ovest nel 1974 non ci sarà. Questa è la storia di Ettore Trevisan.
Triestino classe 1929, insieme al fratello Guglielmo crebbe nella Triestina per diventare una discreta mezzala. Scartato dalla Lazio, finì in Francia nel Nizza, pero poi andare su è giù dall’Italia sino all’ultima squadra, la Sanremese. Siamo nel 1958, da lì in poi iniziò la carriera da allenatore, in Veneto a Belluno. È ricordato come uno dei primi italiani ad allenare all’estero, in Grecia, prima all’Ethnikos Pireo poi al blasonato Olympiakos, alla guida del quale arriva secondo in campionato e vince la Coppa nazionale. Siede anche sulla panchina dell’Aris Salonicco prima di approdare in Corsica a Bastia. Quindi una girandola di squadre prima del 1973, quando una chiamata gli cambiò la vita.
Trevisan, scomparso nel novembre del 2020, ha raccontato più volte la sua avventura nei Caraibi.
«Quando mi venne proposto di andare ad allenare la Nazionale di Haiti io stavo lavorando in Corsica, al Bastia. In precedenza, dopo aver giocato per parecchi anni in Italia e in Francia (a Nizza, per l’esattezza, dove imparai il francese), mi ero dedicato alla panchina, raccogliendo le soddisfazioni maggiori nei cinque anni trascorsi in Grecia alla guida dell’Etnikos, dell’Olympiakos, del Volos e dell’Aris di Salonicco. Devo confessare che, quando un emissario della Farnesina mi convocò a Roma ventilandomi quella proposta, io nemmeno sapevo benissimo dove fosse Haiti. “È una missione di carattere quasi sociale”, mi disse: “Guardi se la può prendere in considerazione”. Era il 1972. Tergiversai per un paio di mesi, poi decisi di accettare, mosso più dalla curiosità per questa inedita esperienza che da altri fattori. Ancora adesso, anche se l’avventura finì con una grande amarezza, devo dire che serbo di quei mesi un ricordo davvero stupendo».
«Ad Haiti fui accolto con grande simpatia. Venni alloggiato in un albergo gestito da italiani di origine ferrarese e mi ambientai senza problema in un Paese che, seppur afflitto da terribili piaghe sociali, era ed è decisamente incantevole dal punto di vista fisico. Non mi rendevo conto se ero lì per lavorare o per fare il turista: in realtà ero servito, riverito e soprattutto, messo nelle migliori condizioni per lavorare. Avevo a disposizione cinque “assistenti”, fra cui quel Tassy che poi, a qualificazione mondiale acquisita, mi avrebbe “tradito” cospirando per rilevare il mio posto in Germania. Sì, perché vale la pena sapere subito che dopo che ebbi guidato la squadra alla vittoria nel girone americano (eliminando squadre come il Messico) i “politici” decisero di sfruttare “privatamente”, sul piano propagandistico, quel trionfo, impedendomi di accompagnare la squadra in Europa e gestendo la spedizione mondiale in maniera “autonoma”. “Autonoma”, ma, purtroppo per loro, assolutamente dilettantistica.
E finendo così per dissipare un’occasione e un patrimonio sportivo che resteranno molto probabilmente irripetibili. A Port au Prince vivevo quasi da pascià. Avevo due servitori, un cameriere e un giardiniere che pagavo un dollaro al giorno (seicento lire di allora) me la passavo da gran signore con poche lire ma, soprattutto, raccoglievo enormi soddisfazioni dal punto di vista sportivo. A capo del regime c’era già “Baby Doc”, cioè il figlio di Francois Duvalier. Lo conobbi dopo pochi giorni dal mio arrivo e mi diede l’idea – almeno all’apparenza – di un ragazzetto bonaccione. Ben diverso dal ritratto sanguinario che mi era stato fatto del padre che, a quanto si raccontava, aveva sempre usato un sistema molto drastico per eliminare gli avversari politici: faceva circondare la casa del rivale di turno dai suoi terribili “tontons macoutes” e vi faceva uccidere e bruciare vivi tutti quelli che l’abitavano; dai proprietari, ai famigliari, agli amici, ai domestici.
In un primo tempo pensai a racconti un po’ romanzati, poi molte cose contribuirono a farmi cambiare opinione. Io, comunque, ero trattato con molto rispetto: avevo, anzi, il “vantaggio” di poter disporre dei giocatori che convocavo usando gli stessi sistemi militareschi in voga ad Haiti. Una specie di potere assoluto sugli atleti del quale, ovviamente, non abusavo, ma che mi serviva per imporre le mie idee (spesso, per esempio, per evitare il caldo torrido li facevo allenare alle sei di mattina). Temevo, visto l’andazzo generale, di dover subire pressioni o imposizioni: in realtà i buoni risultati subito conquistati e, soprattutto, la fortuna di avere tra le mani un nucleo di giocatori troppo bravi per poter essere “discussi”, mi esentò da qualsiasi seccatura e, soprattutto, da qualsiasi imbarazzo».
«Il livello tecnico del calcio haitiano era tutt’altro che disprezzabile. La “scuola” era di ispirazione quasi brasiliana: la tecnica, in certi casi, sopraffina. Gli unici nei riguardavano l’assetto tattico che, specie in difesa, tradiva momenti di inesperienza e di ingenuità spaventosi. Io cominciai la “ricostruzione’’ proprio lavorando dal reparto arretrato: insegnai – letteralmente “insegnai” – a colpire di testa, misi insieme un gruppo più che decoroso, finendo con l’ottenere ottimi risultati. I giocatori, essendo tutti dilettanti, mi seguivano con entusiasmo vedendo in quell’esperienza un’occasione di promozione sociale (ed economica) più unica che rara. Erano quasi tutti camerieri, o impiegati, o operai dell’Ente telefonico e dell’Azienda elettrica. Il “soldo” di cinque dollari al giorno li caricava come un’eredità improvvisa. Per di più, fra di loro, c’erano autentici fuoriclasse potenziali come il portiere Francillon, il libero Vorbe e la punta Sanon: i tre cardini su cui costruii la squadra. Tutti gli altri, dotati di una tecnica accettabilissima, erano piuttosto ben dotati fisicamente. La nostra scalata al Mondiale non si fermò davanti a nulla: nemmeno davanti alla… fuga del Ministro del Commercio, Cineas, che doveva garantirci i collegamenti col potere politico. Vidi che nessuno rimase turbato più di tanto da quella sparizione improvvisa: e anch’io mi feci i fatti miei, continuando a rimboccarmi le maniche in vista del Mondiale».
«Quando ci qualificammo per Monaco e Stoccarda, il Paese impazzì di gioia. Duvalier, che per la verità era assai poco appassionato di calcio, preferendo dedicare le sue attenzioni all’automobilismo, ci ricevette dapprima nella sua villa e poi ci offrì una notte di follie in un night alla moda. Molti mi dissero che quell’impresa avrebbe restituito al regime – secondo alcuni già traballante – parecchi anni di vita.
E così fu. Ma, per me, le sorprese spiacevoli dovevano ancora cominciare. Alla vigilia della partenza, infatti, quando già avevo programmato tutta la tournée di preparazione (che doveva iniziare dalla Grecia, proseguire a Dubrovnik e finire con quattro amichevoli in Italia con Udinese, Triestina, Fiorentina e Lazio), mi venne dapprima detto che il segretario della Federcalcio – mio amico ed estimatore – si era dovuto dimettere per… una malattia agli occhi e, quindi, mi venne fatto sapere che la spedizione europea sarebbe stata gestita da un tecnico haitiano. Ovviamente non mi fu consentito di replicare: anzi, mi venne fatto capire che ogni mia reazione od opposizione sarebbe stata – come dire – fuori posto. E così mi tirai in disparte, vedendo letteralmente gettare a mare il gioiello che avevo costruito con tanto amore».
«La preparazione per i Mondiali fu disastrosa. La squadra venne portata in posti freddi e umidi del Belgio e della Francia. Io andai a far visita ai “miei” giocatori a Vichy, per portare a due di loro l’offerta di ingaggio del Monaco e raccolsi lamentele e confidenze: “Lei sa quanto ci piacciano le donne – mi disse uno, grande estimatore, come tutti gli haitiani del “libero amore” -: da tante settimane, invece, siamo costretti a “digiunare”, in località dove veniamo solo derisi“. In pochissimo tempo tutto il mio lavoro venne vanificato: già alla seconda partita del Mondiale la squadra subì sette gol dalla Polonia. La loro unica consolazione fu quella di venir eliminati… assieme all’Italia.
Alcuni atleti come Francillon e Sanon trovarono buoni ingaggi in Europa: altri riuscirono e trasferirsi negli Stati Uniti. Ma, fondamentalmente, il bel sogno – soffocato dall’incredibile disordine sociale, dalla presuntuosa mancanza d’organizzazione e da un corrotto concetto di “propaganda” politica – svanì immediatamente. L’unico che ci guadagnò, come ho detto, fu forse “Baby Doc” che approfittando dell’ubriacatura popolare di quell’illusione, continuò a protrarre la sua già fragile dittatura. Me lo ha raccontato il mio amico della Federazione che, nel frattempo, ha perfettamente riacquistato l’uso… della vista: più per merito della rivoluzione che del collirio».
Svanito il sogno mondiale, per lui si prospettò un breve ritorno in Grecia, per poi ricominciare nelle serie inferiori italiane sino al 1985, quando a Marsala, ancora prima di iniziare il campionato, deciso di porre definitivamente fine alla sua carriera.
Mario Bocchio