La strada l’aveva mostrata l’amico Francesco Morini, che per primo affrontò il viaggio transoceanico con destinazione Toronto, rispondendo alla chiamata di un amico viareggino di nome Tonelli, uno che davvero aveva trovato l’America e aveva accumulato una fortuna facendo il costruttore. Così, le prime 22 presenze “made in Italy” nella storia dei Toronto Blizzard, nel lontano 1981, le mise a registro lui. Lo seguì a ruota, un anno dopo, Giampaolo Boniperti, figlio di Giampiero. Bobby Gol decise di affrontare l’avventura nel 1983, il tempo di indossare per l’ultima volta la maglia bianconera, un addio sfortunato, nella finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo.
Il viaggio americano era, nelle intenzioni di Roberto Bettega, una specie di gioco inventato per scoprire un nuovo mondo e un nuovo calcio. Ma era altro, anche per la stessa Juventus: l’occasione di accumulare esperienza in un campionato che dal punto di vista tecnico era indietro anni-luce rispetto a quelli europei, ma dal punto di vista imprenditoriale e delle strategie di mercato sembrava avere tanto da insegnare all’antico continente. Niente di più falso, e le magagne sarebbero venute a galla di lì a poco: partito con grandi ambizioni, grandi nomi e grandi investimenti, il “soccer” franò in fretta nell’indifferenza di un pubblico abituato ad altri spettacoli.
L’avventura di “White Head” (“Penna Bianca”, convertito in inglese, diventa un bel nome da indiano irochese) con la maglia dei Toronto Blizzard dura due stagioni. In entrambe raggiunge il “Soccer Bowl” del campionato Nasl nordamericano, in pratica la finale, e viene battuto la prima volta dai Tulsa Roughnecks e la seconda dai Chicago Stings. Tecnicamente, non aggiunge nulla al suo bagaglio e a una carriera da medagliaio del pallone. La parentesi gli serve ad arricchirsi dal punto di vista umano, ad allargare il ‘‘fronte della coscienza”, a farsi un bagno di nuova cultura.
«È calcio vero anche sulla moquette. Sapevo che non sarebbe stata una passeggiata, ma non immaginavo che, a trentatré anni, avrei quasi dovuto ricominciare da capo. Non è un calcetto, come qualcuno in Italia può pensare: è vero football. La matrice è tipicamente inglese, il pallone non si ferma mai e viaggia dalla difesa agli attaccanti, che fanno da sponda per favorire le conclusioni del centrocampisti. Poiché non esiste il pareggio, prevalgono la mentalità offensiva, il ritmo e la corsa. Per ora il problema maggiore è il campo, una “moquette” sottile incollata al cemento, sulla quale il pallone rimbalza moltissimo: sull’erba i valori tecnici emergono di più, ma questa nuova esperienza mi eccita, cosi come mi piace lo spirito della squadra, la combattività, la voglia di vincere che l’anima e che mi contagia».
L’avventura, in fondo, lo diverte. Tanto che ancora una volta si fa beffe del solito appuntamento-trappola col destino. Nel primo pomeriggio del 2 novembre 1984 Roberto è in Italia, e sta viaggiando con la sua A 112 in autostrada, da Torino a Milano. Improvvisamente perde il controllo dell’auto che va a schiantarsi contro il guard-rail ed è sbalzato fuori dall’abitacolo. Ricoverato all’ospedale di Novara, i medici gli riscontrano un trauma cranico con frattura occipitale destra e uno pneumotorace causato dalla frattura dell’ottava costola che ha lesionato il polmone destro, lo stesso colpito dalla grave malattia del 1972. Un’altra battaglia da vincere.
Ma il campione che si fa beffe del destino, questa volta, viene beffato semplicemente dal suo mondo nuovo d’oltreoceano: recupera ancora una volta, e nel febbraio del 1985 firma il contratto per una terza stagione ai Blizzard, ma la Nasl affoga in un mare di debiti e getta la spugna.
L’avventura del “soccer” in America, per il momento, è finita ingloriosamente, Roberto Bettega capisce che è arrivato il momento di dire basta. La sua vita da campione del calcio finisce qui. Il futuro prossimo sarà la televisione. Aspettando il richiamo di Madama Juve, sua destinazione naturale.
Fonte Storie di Calcio