Un soprannome epico, che evoca leggiadria in un calcio che fu. Felice Placido Borel è stato atleta di alto livello, cannoniere e campione prodigio: purtroppo, dovette sacrificare quasi tutto a causa di un problema fisico. Ma in quella manciata di anni Trenta scrisse pagine da ricordare.
Nato in Costa Azzurra a Nizza – Nizza Marittima fino al 1861 – il 5 aprile 1914 da genitori commercianti, Felice Placido Borel scoprì la passione per il calcio in famiglia grazie al padre Ernesto (calciatore del Nizza) e al fratello maggiore Aldo, già giocatore della Juventus e preselezionato per la prima gara della Nazionale nel 1910. Centravanti dal fisico leggero (166 cm per 55 kg) e con appena 37 di piede, il giovane passò agli annali come Borel II. Si avvicinò dapprima al Torino, nei Balon Boys fondati a fine anni Venti, ma fu naturale il passaggio ai colori bianconeri. Senso del gol, tecnica ed eleganza le sue doti più evidenti, insieme – come ci ricorda Fabio Ornano – a quella caratteristica andatura leggera che gli valse il soprannome di “Farfallino“: un nomignolo che non lo avrebbe più abbandonato, coniato dal celebre Carlin, al secolo Carlo Bergoglio.
Il debutto in prima squadra avviene nel campionato 1932-‘33, precisamente il 2 ottobre 1932 contro il Napoli e da mezzala, per sostituire Cesarini. Un approccio talmente luminoso da culminare in uno scudetto vinto da capocannoniere della Serie A, con il sensazionale score di 29 reti in 28 partite: è nata una stella. La stagione seguente prosegue sulla stessa falsariga, all’insegna del gol. Così Vittorio Pozzo non può ignorarlo e, dovendo far fronte a qualche defezione, lo chiama in Nazionale. L’esordio azzurro è datato 22 novembre 1933, a Budapest. Finisce 1-0 per l’Italia e… indovinate chi la decide? Esatto, proprio il nostro protagonista.
Ne La Storia Illustrata della Nazionale, ecco la descrizione del gol: “Cesarini allungò il pallone a Borel che si trovava a circa metà campo; con due successivi balzi il non ancora ventenne centrattacco azzurro si liberava di Palotás e di Bíróche avevano tentato di ostacolarlo e in breve si trovò, solo, di fronte al portiere Háda: un tiro secco di sinistro da una diecina di metri mandò il pallone a insaccarsi in rete“.
Un campione con i suoi riti: “Avevo l’abitudine, ovunque andassi, di ribaltare il lettino dei massaggi. Ero superstizioso. Ero pure la bestia nera della Roma, contro di loro segnavo sempre: sapevano di questo mio gesto e una volta mi fecero trovare il tavolo inchiodato! Ma non mi persi d’animo. Insieme a Orsi, che giocava con il jolly delle carte nella scarpa, sradicai il mobile dal pavimento. Segnai e vincemmo 2-1. Non eravamo di certo gli unici: Rosetta era solito vestirsi di nero il giorno prima della partita“, dichiarò a La Stampa nel 1987.
Chiuso in primis dal bolognese Angelo Schiavio, Borel guarda sostanzialmente da riserva la vittoria italiana nella Rimet casalinga del 1934, evento a cui meritò di prender parte dopo una seconda pirotecnica stagione con la Juventus: nuovo scudetto, altro scettro del gol con 32 centri in 34 partite. Nel frattempo aveva giocato a dicembre 1933 contro la Svizzera e in quel Mondiale scese in campo solo in occasione nella ripetizione dei quarti con la Spagna. Ricordò così il trionfo iridato a La Stampa nell’agosto 1982: “In piazza Colonna, a Roma, eravamo usciti sul terrazzo dell’albergo: c’erano 50.000 persone ad applaudirci, un’impressione enorme, mi era venuta la pelle d’oca“. In quel momento, sulla scia di un ingresso così fragoroso nell’élite del calcio nostrano, nessuno avrebbe potuto pensare a un declino altrettanto rapido.
Nell’annata 1934-‘35, il nostro conquista il terzo campionato di fila con i bianconeri, l’ultimo della celebre striscia del Quinquennio. Tuttavia segna molto meno rispetto alle abitudini, 13 gol in 29 gare. Un periodo segnato dal suo coinvolgimento nell’allontanamento del Mister juventino Carlo Carcano. L’allenatore sarebbe rimasto coinvolto in uno scandalo gay per presunte attenzioni proprio sul giovane Felice Placido Borel, ma non da solo: saltano fuori anche i nomi dei celebri giocatori Luís Monti e Mario Varglien. Alcuni dirigenti juventini montarono così un quadretto ingestibile. Il terzino Pietro Rava, molti anni più tardi, avrebbe vuotato il sacco: il barone Mazzonis, braccio destro del presidente Edoardo Agnelli, viveva con l’orticaria la situazione. Tanto che le presunte ambiguità dei comportamenti di Carcano, con i giocatori citati e addirittura alcuni dirigenti, vennero messi all’attenzione dell’industriale torinese dell’auto. Al termine di una riunione, Carcano saltò irrimediabilmente e venne sostituito in panchina da Carlo Bigatto. Nel 1935, il giocatore di origine nizzarda si infortuna in allenamento a un ginocchio: l’inizio del tramonto.
Viene operato tre volte, ma possiamo intuire i livelli della chirurgia ortopedica dell’epoca. Infortuni purtroppo in grado di rovinare una carriera: proprio ciò che accadde a “Farfallino”, che riuscì a ritrovarsi solo nel 1936-‘37 (17 gol in campionato) però in occasione di un’isolata fiammata. La sua parabola proseguì lenta, senza mai più riscoprire i livelli degli esordi. Nel 1941-‘42 passò al Torino, giocando un torneo in granata immediatamente prima dell’epopea di Mazzola e degli Invincibili, prima di tornare in bianconero. Le ultime fugaci recite da calciatore lo vedono ad Alessandria e Napoli. Resta ancora oggi il più giovane capocannoniere della Serie A, grazie al titolo vinto nel 1932-‘33, a diciannove anni e due mesi.
Tante cose nel post agonismo di “Farfallino”. A Torino aprì un café e una boutique di moda gestita dalla moglie; allenò Juve, Alessandria, Napoli e Ternana, con un’esperienza in Canada; direttore tecnico del Catania; fu general manager di “Italia ’61” presieduta da Umberto Agnelli; continuò a seguire il pallone come giornalista per la rivista “Il Campione”. In breve tempo si dedicò alla scoperta di nuovi talenti per conto della Juventus, l’amore di una vita. Fu proprio in questa veste che scovò un certo Giampiero Boniperti, destinato a scrivere il proprio nome a caratteri cubitali nella storia juventina e non solo. Un’attività che Felice portò avanti su e giù per la Liguria, presenziando spesso anche ai match casalinghi di Genoa e Sampdoria. Si legò alla località di Finale Ligure, nel savonese, dove fu ospite d’onore per anni del locale torneo internazionale giovanile. Il 21 febbraio 1993 trovò la morte a 78 anni, dopo aver lottato con un male incurabile. Era l’ultimo campione del mondo del 1934 ancora in vita. Finale Ligure gli ha dedicato lo stadio cittadino.