Romolo Bizzotto, calciatore, allenatore delle giovanili e poi allenatore in seconda per quasi vent’ anni della Juventus. Un nome conosciutissimo e molto amato quello di Bizzotto da parte dei tifosi bianconeri. Nato a Cerea, in provincia di Verona, il 16 febbraio 1925, Iniziò a giocare sedicenne durante il secondo conflitto mondiale, con alcune apparizioni nell’Audace , squadra del quartiere veronese di San Michele Extra. Nell’immediato dopoguerra passò al Verona, in Serie B, dove rimase per quattro stagioni prima essere prelevato dalla Juventus. A metà degli anni 1950 si accasò quindi dapprima alla Spal, in prestito, e poi al Palermo, sempre nella massima categoria.
Dopo un triennio trascorso fra Serie C e IV Serie con le maglie di Carrarese e Lucchese lasciò l’attività agonistica nel 1959, all’età di soli trentadue anni, al termine di due campionati nell’Interregionale con il Rovereto. E Romolo ricordava spesso «Di quel giorno in cui si giocava la partita Rovereto e Audace di San Michele Extra, capitanata da Mariolino Corso. Ebbene, proprio lui mi superò con una facilità impressionante, facendomi passare la palla sopra la testa, con il sottoscritto fermo come una bella statuina. Quello sgarbo mi fece intendere che, anche se calcisticamente non ero proprio da buttare, era giunto il momento di chiudere la mia carriera agonistica. Era davvero giunta l’ora».
Inizia così la carriera da allenatore: prima il Rovereto, poi Verona a cui segue un triennio in C al Rimini e con la Reggiana e la Reggina.
Bizzotto ha giocato due stagioni alla Juve (1949-‘50 e 1951-‘52) collezionando 46 presenze e 2 gol e vincendo due scudetti. Ed è così che la società bianconera gli affida la responsabilità del settore giovanile nel 1971 e già un anno dopo, nel 1972, Bizzotto porta i giovani bianconeri alla vittoria del campionato Primavera superando in finale la Roma.
Guida anche la prima squadra in occasione di Juventus-Cagliari del 7 maggio 1972, sostituendo Vycpálek, che era stato ingaggiato dopo la prematura scomparsa di Armando Picchi. In quell’occasione il tecnico cecoslovacco era stato colpito dal lutto della morte del figlio, perito pochi giorni prima nell’incidente aereo del volo Alitalia 112.
L’elegante penna di Roberto Baccantini ha così descritto Romolo Bizzotto quando è morto nel 2017:
“Ai giovani non dirà niente, e allora mi permetto di dire qualcosa io: ci ha lasciato ieri, all’età di novantadue anni, Romolo Bizzotto. Romolo per tutti. Mediano in campo come nella vita, attento cioè a mediare tra difesa e attacco, buona e cattiva sorte, giocò nella Juventus dal 1949 al 1952, la Juventus di John e Karl Hansen, di Giampiero Boniperti e Karl Aage Præst, con la quale portò a casa due scudetti.
L’ho conosciuto e frequentato ai tempi in cui Boniperti presidente aveva rimodellato lo staff: Giovanni Trapattoni allenatore, Pietro Giuliano direttore sportivo (o generale o segretario, boh), Francesco La Neve medico sociale con calumet al seguito. Veneto di Cerea, Romolo era il vice del Trap. La classica persona che aiutava i personaggi a restare persone, appunto. Sapeva di calcio, e per questo veniva spedito in missione, a spiare gli avversari. Riempiva quaderni, limava e limitava gli aggettivi, credo che in cuor suo avesse accettato il ruolo perché appagato (e non solo perché pagato).
Erano gli anni Settanta e Ottanta, e la Juventus si allenava al Combi, in faccia al Comunale, sullo sfondo di caseggiati cupi, quasi gotici. Un altro mondo.
Gli allenamenti erano pubblici, e il taccuino motivo di sfottò, al massimo, e non ancora di confino. Romolo scaldava i portieri, palleggiava con Zibì Boniek e Michel Platini, rispettato e rispettoso. Con i cronisti, da Vladimiro Caminiti al più acerbo, si fermava, parlava, sorrideva.
Lo ricordo a Villar Perosa, durante i ritiri estivi, quando scherzava con mio papà. Gli telefonavo la vigilia di Natale, ogni anno. La voce era sempre quella: pastosa, modesta, saggia. Finché un giorno la moglie non me lo passò più. E così la Spoon River si allunga, si allarga. Romolo il fedele, Romolo la spalla che non faceva ombra ma luce, un felice paradosso che, commosso, gli dedico”.
Mario Bocchio