Nel novembre del 2017, dopo sessant’anni di storia calcistica, l’Italia andava in “balon”: esclusa dai campionati del Mondo. Qualcuno poteva giustificare il fatto affermando che tutto ciò fosse dipeso dalla ragion logica della scienza statistica. Io penso, invece, che il fallimento sia stato causato dal peccato originale di una crisi economica continua. Cosa intendo affermare?
Che quella disfatta fu una conseguenza della mancanza d’investimenti e programmazione nei settori giovanili italiani; da quelli della massima Serie fino alla Terza Categoria dell’oratorio. Ma al di là della “Caporetto calcistica”, la notizia che mi lasciò attonito in quei giorni fu quella di un calciatore di Seconda Categoria del Futa 65, salito agli onori della cronaca nazionale per la gioia stolta espressa dopo aver messo a segno il gol decisivo contro la squadra del Marzabotto. Filmato e foto ritraggono il giocatore correre con la mano tesa sotto la tribuna dopo aver levato la casacca per mostrare la maglia nera con l’effige del fascio littorio tra gli artigli dell’aquila della Repubblica di Salò.
Sia chiaro che non avrei sottaciuto neanche se il giocatore avesse indossato la maglia rossa con l’immagine di Che Guevara. Figuriamoci che non apprezzo nemmeno assistere alle pagliacciate, quando l’atleta di turno, realizzato un gol, si esibisce col pallone sotto la maglia mimando la moglie incinta accomodata in tribuna. Nemmeno m’interessano, come nel caso specifico, i commenti che rivendicano sanzioni appellandosi all’apologia di reato di vari regimi. Io vorrei più semplicemente capire cosa passa per la testa di un giovane che dovrebbe scendere in campo solo per sano divertimento, quando compie un gesto del genere.
Indossare un simbolo politico sotto la maglia della squadra cittadina, vuol dire programmare, a priori, una manifestazione che nulla ha a che vedere con i compagni di gioco, i paesani, la società calcistica che rappresenti e men che meno ha a che fare col sano, sacrosanto, spirito sportivo. A nulla possono valere i mea culpa dopo aver capito d’essere entrato nell’occhio del ciclone mediatico. Ed è meschino chiedere venia giustificandosi di non aver inteso le conseguenze dell’indegno atto. Ma il giovanotto avrà mai compreso il dramma vissuto a Marzabotto al tempo del nazi-fascismo? Allora glielo ricordo io con un sunto che mi sono appuntato, quando sono andato a visitare il luogo dell’eccidio.nIn silenzio tombale la piccola folla raccolta in quel sacro lembo di terra racchiusa tra le mura di cinta, sta attonita e sgomenta. Solo lì, sotto quel cielo plumbeo che copre il luogo del massacro, solo dopo aver ascoltato quell’ultima breve frase, la gente arrivata da lontano ha compreso il dramma vissuto dalle vittime sepolte più a valle, laggiù, nel Sacrario di Marzabotto e ha capito fino in fondo ciò che accadde a Monte Sole nel lontano autunno del ’44. Entrato nel Mausoleo, sia a destra sia a sinistra, si leggono i nomi e l’età delle vittime.
Incisi sui marmi compaiono anche decine di persone con lo stesso cognome che rappresentano intere famiglie decimate. Quello che colpisce è che i martiri sono nella quasi totalità, vecchi, donne e bambini. Centinaia di bambini; anche di pochi mesi! La guida andava spiegando la geografia del posto e come Marzabotto sia identificata in realtà come simbolo di un eccidio compiuto nel suo territorio comunale; nella zona rurale di Monte Sole che comprendeva le frazioni di San Martino, Casaglia, Caprara, Cerpiano. Ognuno di questi borghi collinari aveva una Pieve che fu rasa al suolo a cannonate. Ed è di fronte a questi ruderi sacri, oppure dentro i camposanti lì a fianco situati, che fu massacrata a gruppi di cinquanta, sessanta esseri umani per volta la popolazione inerme del posto, compresi 5 parroci che imploravano pietà per quegli innocenti.
Ed è lì! Lì che ora tutti hanno compreso. Capito la malvagità dell’uomo plagiato nell’animo dal demone della guerra. Sono quei fori di proiettile che si osservano sulle poche lapidi rimaste in piedi a rivelarlo. Qualcuno della comitiva, rompendo il silenzio irreale sotto una pioggia ora muta, chiese alla guida il motivo per il quale i soldati nazisti avessero mirato alle gambe dei disgraziati, dopo aver osservato quei grossi buchi di mitraglia così bassi sulle pietre sepolcrali ancora rimastre dritte. L’anziano che all’epoca dei fatti era un bimbo di sei anni riuscito a sfuggire al massacro, abituato ormai da decenni ad ascoltare quella osservazione, risponde rassegnato dopo una breve pausa: “I soldati tedeschi davanti alle madri hanno messo i bambini…”.
Ebbene, prova tu a immedesimarti nell’anonimo soldato piazzato con la mitraglia davanti a quei disperati e senza ribellarti all’ordine folle dell’ufficiale, mira sui piccoli innocenti schierati davanti alle madri straziate dal dolore, ai vecchi increduli e atterriti; ora guarda i bimbi negli occhi e schiaccia il grilletto sparando la raffica infamante”
Giuseppe (Joe) Bonato