“Questo nostro tempo è solo un poco inquinato.”
Sipho Sepamla
Per Steve Mokone l’Europa era letteralmente un altro pianeta. Il club lo aveva alloggiato presso una famiglia bianca, che lo trattava come si tratta un qualsiasi ospite, e lui era profondamente a disagio all’idea di poter stare allo stesso loro tavolo, usare gli stessi bicchieri e posate, addirittura utilizzare lo stesso bagno: al suo Paese, queste cose erano vietate dalla legge. Al suo Paese, era in vigore una rigida politica di separazione razziale, che nella lingua fiamminga dei colonizzatori era detta apartheid. Lui era nato a Doornfontein, un sobborgo della zona interna di Johannesburg, ma era cresciuto nel quartiere limitrofo di Sophiatown.
Negli anni Quaranta – come racconta Valerio Moggia in “Pallonate in faccia” – quand’era adolescente e come tanti neri sudafricani passava gran parte del tempo giocando a calcio (invece che a rugby), il governo iniziava a pianificare un vasto piano di ricollocazione degli indigeni, spostandoli dalle aree interne delle grandi città ai ghetti periferici.
Veniva così ufficialmente istituito l’apartheid, dando coerenza legale a varie pratiche già universalmente diffuse; la famiglia Mokone fu tra le prime a trasferirsi, lasciando Sophiatown per il sobborgo di Kilnerton, a Pretoria. Ma nei primi anni Cinquanta, molti cittadini neri si organizzarono per resistere agli sfratti, e ciò portò a diversi scontri. Nel febbraio 1955, 2.000 poliziotti armati deportarono con la forza la popolazione nera di Sophiatown alla periferia occidentale della città, in una zona chiamata Soweto. Ma mentre avveniva tutto questo, appunto, Steve Mokone era con la sua famiglia a Pretoria. Giocava nell’Home Stars come attaccante, e giocava talmente bene che a 16 anni era già una promessa. Suo padre, un tassista che aveva studiato per diventare pastore metodista, aveva insistito perché mettesse lo studio davanti al pallone, e lo aveva mandato a studiare 600 chilometri più a Sud, a Durban.
Lì, Steve Mokone era entrato nel Bush Bucks e si era meritato una convocazione nella selezione sudafricana nera. Nell’estate del 1955, suo padre acconsentì finalmente alla firma di un contratto con un club straniero, il Coventry City, che militava nella quarta divisione inglese.
Ci volle però un altro anno perché le autorità sudafricane gli rilasciassero un passaporto che gli permettesse di lasciare il Paese: non capitava spesso che un nero potesse trasferirsi all’estero. Steve Mokone presentato entusiasticamente sulla stampa locale di Coventry al suo arrivo tra gli Sky Blues, nel 1956. Fu il primo giocatore nero della storia del club. Mokone arrivò così nel Regno Unito, primo sudafricano nero a giocare in Europa.
Dal nostro punto di vista, non un trasferimento così roboante, visto il livello del club, ma dovete considerare che un salto da un ghetto sulla punta dell’Africa fino al cuore del calcio europeo non era cosa da poco. Per un ragazzo di 24 anni, era un passo da gigante: all’improvviso si ritrovava a vivere in un mondo in cui, sebbene il razzismo ci fosse e i calciatori neri britannici fossero pesantemente marginalizzati, almeno non c’era la separazione razziale.
William Nkomo, membro dell’African National Congress, il principale partito nero sudafricano, e amico di famiglia, prima di partire gli aveva detto “Ogni gol che segnerai, sarà un gol per l’indipendenza”; ma la verità è che in Inghilterra, di gol, Steve Mokone ne potè segnare veramente pochi. Era un’ala destra rapida e piuttosto tecnica, abituata a un gioco di passaggi corti; in Inghilterra si giocava sui lanci lunghi e si praticava un calcio troppo fisico per lui. Dopo un solo anno cambiò aria e passò all’Heracles Almelo, nella seconda divisione olandese, andando a formare una fenomenale coppia d’attacco con Joop Schuman, che nel 1958 portò i bianconeri alla promozione. Sembrava destinato a esplodere, pronto a diventare il primo campione nero del calcio europeo, ma le cose non andarono come Mokone si sarebbe aspettato: un infortunio all’anca lo tenne a lungo lontano dai campi; si trasferì al Cardiff City, seconda divisione inglese, ma rimase quasi tutta la stagione in infermeria. A questo punto, la sua carriera presa una piega insolita: quella del fenomeno da baraccone. Con poche presenze, e spesso in precarie condizioni fisiche, Steve Mokone faticava a mostrare al mondo del calcio le sue qualità, e divenne un divertente spettacolo per tifosi: la gente era incuriosita dal vedere questo nero africano sui campi europei, e i club iniziarono ad approfittarne, acquistandolo per pochi spiccioli e poi schierandolo una volta ogni tanto, come mossa di marketing. Nel 1959 passò al Barcellona, poi all’Olympique Marsiglia, al Barnsley, al Torino e infine al Valencia, nel 1961.
Ovunque, sempre la stessa storia: schierato in amichevole, segnava, sorprendeva i tifosi, ma poi nelle partite ufficiali non lo si vedeva mai. Gian Paolo Ormezzano, commentando la sua esperienza granata, disse che lo avevano preso solo perché a qualche dirigente del Torino piaceva sua moglie – Joyce Maaga, una ragazza sudafricana che Mokone aveva conosciuto a Londra, e che era stata l’unica persona a farlo sentire meno solo e fuori posto – “Era il prototipo del bidone, non era all’altezza”. Ma, se non era all’altezza, perché tutti lo ingaggiavano? Perché segnava in amichevole e poi spariva? All’epoca, in Italia, la consapevolezza sociale sul razzismo era anche più indietro di quella attuale: Ormezzano non arrivava a concepire che il problema di Mokone era che non veniva ritenuto all’altezza in quanto calciatore nero e africano, una cosa che aveva poco a che vedere con le sue effettive capacità. Quando, al Coventry, si lamentò con l’allenatore Harry Warren per il gioco della squadra, totalmente inadatto alle sue abilità, quello gli rispose: “Vuoi discutere dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per portarti qui? Sempre così con voi!”. Con voi. In Europa vigeva un diverso tipo di apartheid, scoprì Mokone; qualcosa di più sottile. Nel 2003, Steve Mokone è stato insignito dal presidente Thabo Mbeki dell’Ordine della Ikhamanga in oro, la massima onorificenza sudafricana, “Per il risultato eccezionale nel campo del calcio e per il contributo di rilievo allo sviluppo dello sport non razziale”. Nel 1963 andò a giocare in Canada, poi in Australia; infine, a 32 anni, si ritirò, trasferendosi a New York, dove si iscrisse all’Università di Rochester e si laureò in psicologia, divenendo assistente professore. Non c’è un lieto fine, però, al termine di questa storia: qualche anno dopo, nel 1978, il nome di Steve Mokone tornò sui giornali per una sentenza a 12 anni di reclusione per un’aggressione con acido contro la ormai sua ex-moglie Joyce e l’avvocata di quest’ultima, con cui era stato in causa per il divorzio e l’affidamento della figlia.
Qui si apre la parte finale, e più controversa, della storia di Steve Mokone. La condanna di Mokone, per un reato di cui si è sempre dichiarato innocente, sollevò molte perplessità nella comunità nera di New York: nessuno aveva visto il colpevole delle aggressioni, e l’ex-calciatore non avrebbe avuto alcun motivo per volersi vendicare dell’ex-moglie, avendo vinto la causa. Steve Mokone era stato uno studente universitario, sebbene un po’ più vecchio della media, negli Stati Uniti degli anni Sessanta: era entrato nei movimenti della sinistra afroamericana, era legato all’African National Congress, prendeva attivamente parte a eventi e incontri in cui si discuteva dell’apartheid e si organizzavano azioni di boicottaggio contro il Sudafrica. Era divenuto una figura scomoda, specialmente dopo che nel 1976 gli studenti neri sudafricani, supportati dall’AFC, si erano ribellati all’apartheid dando il via alle rivolte di Soweto. E allora forse è successo questo: il Sudafrica e la CIA si accordarono per dare una lezione a quel sovversivo nero comunista, inventandosi un’accusa ad hoc per allontanarlo un po’ dall’attività politica.
Forse sì, o forse Steve Mokone non era così influente da far muovere un complotto internazionale contro di sé; forse si sentiva davvero umiliato dall’ex-moglie che voleva punirla, o solo spaventarla, anche se il giudice aveva dato ragione a lui. D’altronde, anche di Eduard Streltsov si dice che sia finito in un gulag per motivi politici, e si derubrica a menzogna l’accusa ufficiale, cioé di aver stuprato una ragazza: la violenza contro le donne, alla fine, è sempre stata ritenuta una scusa per compromettere la reputazione di qualche maschio. Ma questa è una storia a cui non potremo mai dare una risposta certa. Steve Mokone fu di sicuro un pioniere del calcio africano, fu una vittima di razzismo in patria come nella più progredita Europa, e fu un attivista politico. Venne liberato nel 1990, pochi anni prima della caduta del regime bianco in Sudafrica e l’inizio di una nuova fase, alla quale avrebbe preso parte un suo ex-compagno di scuola, Desmond Tutu. Ma non rivide mai il Sudafrica: rimase a vivere a Washington, dove morì nel 2015. In Olanda lo chiamavano De Zwarte Meteoor, la “meteora nera”; tra i suoi amici, era noto come Kalamazoo.