Era la prima parola della più incredibile filastrocca del calcio di ogni tempo, Didì/Vavà/Pelè. Non c’ è mai stato un Brasile così grande, non c’ era mai stata una squadra così grande. Apparve al mondo, quella meraviglia, nel 1958 in Svezia e Didì era già famoso, e più vecchio di lui in squadra c’ era solo Nilton Santos nato nel ‘ 26 (lui, nel ‘ 28). L’ allenatore, un oriundo napoletano di nome Vicente Feola, idee frizzanti e pantaloncini ascellari, aveva appena tolto Altafini e messo Garrincha, tolto Dida e messo un bambino di diciassette anni, Pelè. Come racconta Maurizio Crosetti su Repubblica, avevano scelto Feola per poterlo cacciare più facilmente, dopo un possibile fallimento svedese alla Coppa Rimet. Invece il Brasile fu qualcosa di unico e vario, un grumo di talento puro e difforme, menti e istinti che si muovevano in universi separati ma sapevano essere una cosa, una soltanto, nella magica sintesi di estri e sfumature e contraddizioni. Didì era il motore di quella cosa, era il cervello.
Lo chiamavano l’ Imperatore Etiope per la sua lenta, sovrana eleganza. Calmo il passo e svelto il pensiero, e un perfetto lancio di cinquanta metri sul piede di Vavà, o del ragazzino. La sua specialità era la “foglia morta”, il calcio di punizione con palla planante che in Italia venne poi brevettato da Corso. Didì, quel tiro, se l’ era inventato per forza, poco più che bambino, quando un grave incidente al piede destro gli aveva insegnato a ruotare quel suo attrezzo corporeo, a torcerlo in modo assurdo e sinuoso per produrre un attrito e un effetto mai visti prima.
Se ne intendeva, di piedi, Waldir Pereira detto Didì: lustrascarpe a Copacabana, poi calciatore precocissimo (esordio a diciotto anni nel Club Americano) e una carriera svelta come le azioni che lui innescava. Fluminense, Botafogo, nazionale. Due Coppe Rimet, ‘ 58 e ‘ 62, quattro titoli carioca, un tentativo spagnolo nel leggendario Real Madrid dove il faraone Di Stefano non accettava ombre, perciò Didì tornò a casa dopo un anno. Era il ’59. Lento all’ addio come molti fuoriclasse feriti dalla nostalgia, smise e riprese varie volte fino alla nuova carriera di allenatore che lo avrebbe portato a River Plate, Fenerbahce, Fluminense, in Arabia, in Kuwait ma soprattutto in Perù: con quella nazionale nel ‘ 70 arrivò ai quarti del mondiale, dove lo eliminò il suo Brasile.
Didì è morto nel 2001 di polmonite dopo una lunga e incurabile malattia. Aveva 72 anni e una montagna di ricordi silenziosi, lui taciturno e grandioso in quei dieci anni di Seleçao. Settantadue presenze in nazionale, venti gol, il numero otto sulla maglia. Era alto, magro, flessuoso, era nero di pelle e portava baffetti sottili.
Nelle fotografie, chissà perché, ha quasi sempre lo sguardo triste, e osservando bene ci sono altri come lui, strano accadesse nella squadra più allegra di ogni tempo. Nel ’50 segnò il primo gol all’ inaugurazione del Maracanà, una leggenda dentro l’ altra. «Ai Mondiali del ‘ 58 si comportò come un fratello maggiore con me» ricorda Pelè. «In campo parlava sempre, dava istruzioni ai compagni. Fuori era burlone e scherzoso».
«Didì mi ha insegnato a lavorare, perché il talento da solo non basta» aggiunge Altafini. «Nel ’58 restammo tre mesi in ritiro, le telefonate non potevano durare più di tre minuti al giorno, si doveva soffrire eppure quel grande campione era il più pronto di tutti ad accettare la disciplina». Didì era interno di centrocampo – aggiunge Crosetti – smistava il gioco e calciava le punizioni in quel modo suo, contrario a ogni legge fisica. Palleggiatore squisito, era il campione più essenziale di un meraviglioso gruppo di artisti. Dal suo piede ex malato non partivano ghirigori ma tagli, lanci, intuizioni. Era colui che sta alle spalle del genio e gli dice vai, adesso fai tu, e questo richiede forse qualcosa in più dell’ arte. Richiede consapevolezza, e controllo.