Le storie del calcio sono belle perché si intersecano a molto altro: geografia, tradizioni, colori. Tutto questo è ancora più vero per chi – come me – colleziona da oltre 40 anni gagliardetti di squadre di tutto il mondo. All’inizio di quest’anno, visto che gli spostamenti fisici sono resi impossibili dalla pandemia, ho deciso di intraprendere ogni settimana un viaggio virtuale e di spedire una cartolina, legata a un pezzo della mia collezione. Gli amici de “Il nobile calcio” mi hanno chiesto di raccontare qualcosa su una di queste cartoline, quella che ho spedito da una delle città più emblematiche dei Balcani. Slava, ottomana, austro-ungarica; musulmana, ortodossa, cattolica, ebraica… un’etichetta sola non è mai bastata alla città divisa dalla Miljacka, che nel XX secolo ha fatto da culla alla prima guerra mondiale e da tomba alla Repubblica Federale Jugoslava, capace di sopravvivere per poco più di due lustri al suo fondatore Josip Broz, più noto come Tito. Una città così poteva essere rappresentata da una squadra sola? Ovviamente, no!
Infatti, la Miljacka e quattro chilometri separano lo stadio Olimpico del 1984, intitolato alla leggenda calcistica locale Asim Ferhatović, in cui gioca il FK Sarajevo, da Stadion Grbavica, la casa dello Željezničar. Ma i Bordo-bijeli e lo Željo sono separati da molte altre cose: il Sarajevo è storicamente la squadra della borghesia e dei dignitari bosniaci, i “ferrovieri”, invece, sono un club dall’anima operaia, con forte radicamento nei ceti bassi, spesso di origine serba. Inoltre, mentre lo Željezničar, fondato già nel 1921, continuava a giocare nelle serie inferiori della piramide calcistica jugoslava, il Sarajevo nacque nell’immediato dopoguerra per iniziativa della leadership jugoslava, attraverso la fusione delle tre squadre locali con gli albi d’oro più prestigiosi: i bosniaci musulmani dello Đerzelez, i filo-serbi dello Slavija e i croati del SAŠK (che erano anche stati sanzionati per la loro partecipazione al campionato della Croazia filo-nazista di Ante Pavelić). Il neonato FK Sarajevo fu immediatamente ammesso alla massima serie, con il fine politico di rappresentare degnamente la Repubblica Socialista di Bosnia ed Erzegovina.
La prima sfida tra lo Željezničar e i cugini ricchi ebbe luogo solo nel 1954, e terminò con una fragorosa sconfitta per 6-1. Da allora, però, il Vječiti derbi, il derby eterno di Sarajevo è stato disputato ben 142 volte in competizioni ufficiali, con 42 vittorie dei bordeaux e 45 dei blu, accompagnate da 55 pareggi, l’ultimo dei quali il 1° marzo di quest’anno. Poche rivalità sono forti come quella tra i Košpicari (mangiatori di semi) del Željo e i Pitari (mangiatori di focacce) del FK ed è assolutamente appropriato dire che – a causa dello scarso livello tecnico del campionato bosniaco – il vero spettacolo è sugli spalti, dove i gruppi si sfidano con ironici cori e coreografie notevoli.
Per finire, spendo due parole sui gagliardetti che illustrano la nostra cartolina: per le loro caratteristiche sono usciti certamente dallo stesso laboratorio di ricamo, forse prodotti addirittura dalla stessa mano, a distanza di pochi anni. Quello del Željo arriva da un ex-calciatore francese, che potrebbe averlo ricevuto in dono da Ivica Osim, figura simbolo del club che giocò lungamente nel paese transalpino.
Il Sarajevo, invece, lo consegnò a Luis Guijarro, carismatico personaggio spagnolo, da molti indicato come il primo mediatore calcistico, sul quale varrebbe la pena di scrivere in un’altra occasione. Dopo aver vagabondato per l’Europa, oggi ho il privilegio di tenerli uno accanto all’altro, per continuare il loro derby.
Andrea Furlanetto