La notte dell’8 dicembre del 1985 Silvio Berlusconi accese la televisione e si sistemò in poltrona. Due ore dopo era un uomo innamorato. In tv davano la finale della Coppa Intercontinentale: Juventus-Argentinos Juniors in mondovisione.
Era successo che un argentino con la faccia da indio per un’ora giocò come se Dio decidesse di giocare a calcio e di farlo per quell’ora lì, in diretta da un posto assurdo, un posto che con il calcio non c’entrava niente: Tokyo, appunto. L’indio quella sera perse la partita, ma vinse alla lotteria della vita.
Si chiamava Claudio Borghi, aveva ventidue anni, giocava da mezza-punta. Berlusconi ne rimase stregato, mandò il dirigente Braida in Argentina per aprire la trattativa, Braida tornò e riferì: presidente, non ne vale la pena. Berlusconi già allora era Berlusconi. Perciò decise che la ragione sta da una parte sola. La sua. L’anno dopo comprò Claudio Borghi per cinque miliardi più spiccioli e lo parcheggiò al Como, in riva al lago, in riva al successo che – promise Berlusconi – sarebbe presto arrivato.
L’indio, che era nato povero ma non stupido, e che aveva passato l’infanzia a costruire gabbie per gli uccelli e a imbottigliare acqua minerale, quando dopo le prime settimane ebbe la certezza che l’allenatore Aldo Agroppi aveva capito il trucco, fece sapere a Berlusconi che se non segnava manco un gol era colpa di quell’uomo cattivo e comunista, non necessariamente in quest’ordine.
Così a Como arrivò il democristiano Tarcisio Burgnich, ma le cose non cambiarono. Brocco era, brocco restava. Rimase in Italia un anno, se ne andò tra gli sberleffi di tutti. Solo un uomo continuò a giurare per anni che Claudio Borghi era stato un campione incompreso e osteggiato dai comunisti.
Furio Zara