Il 2 sta sull’11, il 3 sul 7, il 4 sul 10 e il 5 sul 9, dogma o teorema, fate voi, questo era il pensiero che governava il calcio e la sua interpretazione qualche fa. E il numero 4, o mediano di spinta, anche in Italia aveva i suoi interpreti, poi passati alla storia, da Furino a Esposito, da Patrizio Sala, fino al mitico Trap. E poi c’era lui, il protagonista della nostra storia: Carlo Tagnin. Una bella storia di vita, la sua. Suo padre nasceva a Fratta Polesine; tra i suoi compagni di scuola anche Giacomo Matteotti, con cui aveva condiviso sogni e ideali, fin da giovane. Gli stessi ideali che anni dopo lo costringevano, all’epoca del regime, a lasciare Serravalle Scrivia, dove nel frattempo si era trasferito e messo su famiglia, per trovare tranquillità, a Valle S. Bartolomeo, il sobborgo in cui Carlo nasce nel 1932.
Tagnin si è formato tra i prati di Piazza d’Armi e le strade polverose di Alessandria alla metà degli anni 40. Qualcuno lo notava e il passo era breve, per arrivare in granata, al Torino, squadra del cuore di Carlo. Lo scovava Giovan Battista Rebuffo, qualche anno prima scopritore di Loik e Valentino Mazzola al Venezia.
Dal 1947, Carlo scalava la gerarchia delle squadre giovanili, vivendo quasi in diretta la tragedia di Superga, in un giorno di pioggia così intensa – ricordo indelebile – da costringere il suo mister, Ussello, a spostare i suoi ad allenarsi sotto le gradinate del Filadelfia. E Tagnin sarebbe stato uno dei giovanotti che indossarono la maglia degli Immortali nelle gare dopo il 4 maggio del ‘49, giocate giusto per finire quel campionato crollato nel dolore. Carlo incrociava il Grigio per la prima nel 1952-‘53, segnando – segno premonitore – il primo gol del campionato e trascinando l’Alessandria a suon di gol (10 in 31 partite) in serie C: era un degli emergenti in categoria, tanto che qualcuno lo chiamava Skoglund come il funambolo svedese dell’Inter scudettata di quell’anno.
Ad Alessandria, più prosaicamente, Tagnin era il biunden per quella chioma bionda che si notava in mezzo a tutti. Dopo il Grigio, il biancorosso del Monza per tre anni e poi il ritorno ad Alessandria – secondo incrocio – primo campionato in A, dopo lo spareggio di S. Siro, vinto in un torrido pomeriggio del giugno ‘57. Una stagione bella tirata, con un salvezza meritata, in una A estremamente competitiva, dalla Juventus di Sivori e Charles al Padova di Paròn Rocco. E poi l’avventura romana e il primo appuntamento di Tagnin con la storia: la Coppa Italia del 1958, la prima assegnata nel dopoguerra, con la Lazio di Fulvio Bernardini.
Una notte di fine estate, quel 24 settembre e una partita incerta, senza esclusioni di colpi dove il tecnico laziale si prendeva una clamorosa rivincita con la Fiorentina, portata allo scudetto qualche anno prima e consegnava ai biancocelesti il primo trofeo della loro storia. Guardatelo Tagnin nelle foto finali di rito, sudato e di una felicità quasi infantile e comprenderete un po’ del suo personaggio, generoso e infaticabile. Poi c’è Bari, ancora serie A, storie poco chiare di scommesse e una lunga squalifica. Ma c’era il Real Madrid nel destino del biunden, Real Madrid via Rapallo. Era l’estate del 1962, Tagnin era fermo da mesi ed eccogli arrivare la proposta del patròn del Rapallo, Bogliardi: in programma una minitournèe in Spagna con un’amichevole con le merengues.
Tagnin si aggregava ai liguri e di lì la rinascita. Helenio Herrera intanto non aveva dimenticato quel numero 8 del Bari, tutto corsa e dinamismo, incontrato qualche mese prima e l’arrivo in nerazzurro, previa riduzione della squalifica, sotto la regia dell’Avvocato Prisco, era cosa fatta. E qui il nuovo appuntamento di Carlo con la storia: il Prater, il Real di Puskas, Gento e lui a seguire Di Stefano “anche se va in bagno”, secondo le indicazioni del Mago che di Tagnin sapeva tanto e quasi tutto, forse anche di quel giorno che, in Grigio, Pedroni gli aveva dato il nove col compito di marcare il libero del Milan, un certo Liedholm.
Quella notte viennese del maggio ‘64 fu la notte della prima Coppa dei Campioni dell’Inter ma anche la notte di Tagnin, della sua umiltà e del sua dedizione e il giorno nelle cronache c’era spazio anche per lui. Dal nerazzurro si congedava con due scudetti, due Coppe dei Campioni e una Intercontinentale per ritrovare il Grigio e chiudere con una di quelle salvezze sudate tipiche di quell’Alessandria sempre in affanno a metà degli anni Sessanta, tra vecchie glorie venute a svernare e problemi societari da capogiro.
Tagnin andava poi a insegnare calcio, prima all’Inter e poi ai Grigi e qui siamo al quarto incrocio. Tanti giovani lanciati e apparizioni sulla panchina della prima squadra. “Umile, riservato, quasi geloso del proprio passato” racconta Angelo Gregucci cresciuto con lui. “Mai una mediazione, convinto nei principi e nelle idee. Una guida morale, oltre che tecnica” l’eredità di Carlo Tagnin.
Gigi Poggio