I portieri avevano il numero 1, il 12 se non giocavano, ai Mondiali il 22 se erano la riserva della riserva. Jan Jongbloed portava invece il numero 8 dietro la schiena su un maglione giallo, quando scoprimmo che si poteva giocare a calcio in un altro modo, e l’altro modo era quello dell’Olanda. Jongbloed era avanti.Nello spazio: perché giocava spesso fuori area. Nel tempo: perché giocava come giocano i portieri di oggi, e lo faceva più di 45 anni fa.
“Il portiere-libero, col numero 8 sulla schiena, nacque allora” ha scritto una volta Gianni Mura, che lo chiamava: “Lo sgraziato Jongbloed”. I liberi non esistono più. I portieri come lui sono la maggioranza. Sono lo spirito del tempo. Era unico. È diventato uno stile. Era un’eresia. È diventato un genere.
Ha vinto lui, ai Mondiali del ’74 divideva. Giovanni Arpino, che aveva vinto 10 anni prima il Premio Strega con L’ombra delle colline, era inviato in Germania per la Stampa. Nelle pagelle della finale, di Jongbloed scrisse: “Porta le ginocchiere come un portiere degli Anni Trenta, fa il tabaccaio, tutti lo irridono per la sua propensione ad uscire dall’area come un ‘libero‘. Però devia due difficili palloni-gol e merita maggior considerazione. Non sarà mai Zoff, ma agli olandesi potrebbe bastare, se non giocherellassero troppo in area”.
Gianni Brera, come sempre, la pensava all’opposto. “Adesso, se fosse possibile, verrebbero acquistati in blocco gli olandesi, non escluso il portiere macchietta Jongbloed”.A quei Mondiali, Jongbloed neppure sarebbe dovuto andare. Lo chiamarono un mese prima. Mancava in nazionale da 12 anni.
Stava nascendo l’Olanda delle due finali perse, ma solo gli orafi misurano il valore delle cose dal loro peso. Noi possiamo ancora permetterci di stabilire cosa sia la grandezza privandoci di qualunque unità di misura. Il privilegio della soggettività, del gusto, la meraviglia di decidere ciascuno per conto proprio che cosa sia la bellezza. Jongbloed era una specie di brutto anatroccolo della storia.
Giocava in una piccola squadra di Amsterdam, il Door Wilskracht Sterk, nei giorni in cui il calcio ad Amsterdam era soprattutto l’Ajax. Quelli vincevano le Coppe dei Campioni e il DWS andava verso il declino, verso la fusione con altre due squadre, dopo un picco toccato con il titolo olandese del ’64. Jongbloed era basso, tozzo, sì: era sgraziato. La Nazionale gli aveva dato un’occasione nel ’62, lui aveva ricambiato tanto affetto prendendo quattro gol dalla Danimarca e la cosa era finita lì. Per questo, pur giocando in Serie A, non aveva mai lasciato la tabaccheria di famiglia.
“L’emozione era immensa, mi ricordo che a Milano effettuai un intervento spettacolare e mentre ero proteso in tuffo ebbi la sensazione che avrei potuto fluttuare a mezz’aria in eterno se solo avessi voluto, la percezione estrema del concetto di libertà questo è ciò che mi ha regalato il ruolo del portiere, non esiste nulla di meglio al mondo“.
Mondiali del 1974. Il Ct olandese Michels convoca Piet Schrijvers e Heinz Stuye e buon terzo Jan Jongbloed, che vista la vicinanza e la possibilità di portarsi la canna da pesca accetta. Nessuno si aspetta quello che succederà il giorno dell’esordio dell’Olanda contro l’Uruguay, nemmeno la Panini, che si scorda di mettere Jongbloed tra le figurine dell’album. Michaels dice al numero 8 (le maglie, nell’utopia calcistica dell’Olanda, erano state distribuite in ordine alfabetico, con l’ovvia eccezione di Cruijff, sempre e comunque numero 14) che a difendere la porta ci andrà proprio lui. Che non gioca nemmeno con i guanti, che indossa delle ginocchiere come un ragazzino qualsiasi dell’oratorio, lui che se può para sempre con i piedi, che quasi mai si trova in area quando la sua squadra attacca, anzi cerca sempre di partecipare alla manovra, che scorrazza in giro per il campo, e proprio per questo è lui il portiere ideale per l’Olanda del calcio totale. L’Olanda arriverà in finale, con Jan Jongbloed come migliore portiere del torneo (prima della finale un solo gol subito, pure su autogol). Quattro anni dopo, orfani di Cruijff che si era autoescluso, l’Olanda raggiungerà di nuovo la finale, sempre con la squadra di casa. Anche questa volta in porta ci sarà Jongbloed, tornato titolare dopo un inizio Mondiale non felice solamente perché il suo sostituto si era infortunato in semifinale. Anche questa volta l’Olanda perderà e questo sarà l’ultimo mondiale con il numero 8 in porta. Jongbloed continuerà giocare fino ai 45 anni, sempre alternandosi al bancone della tabaccheria e non rinunciando mai alla pesca, e si arrenderà solamente ad un infarto che gli fece decidere di smettere. Qualche anno fa gli chiesero se non fosse dispiaciuto di aver perso due finali di mondiali, Jan disse che sì, era un peccato averle perse ma che era un merito esserci arrivati, che non era da tutti, ma che in entrambe i casi non ci aveva fatto una malattia, perché nella vita aveva perso cose molto più importanti.
Il 23 settembre 1984 Jan Jongbloed continua a fare il portiere, difende la porta del Go Ahead Eagles, una squadra di quarta divisione, la rinata DWS però ha ancora un Jongbloed in porta, si tratta del figlio Eric, che dal padre ha ereditato la passione e anche lo stile, e anche l’amore per i colori di quella squadra minore di Amsterdam. Mentre Jan è a Rotterdam per giocare contro lo Sparta, il figlio Eric sta sfidando il Rood-Wit ad Amsterdam, la giornata è brutta, inizia a piovere a dirotto. Eric decide di calciare la palla dal fondo (di solito compito del compagno Rob Stenacker) ma mentre prende la rincorsa un rumore assordante accompagnato da una luce accecante si abbatte sul campo, quando i giocatori si riprendono dallo shock il corpo di Eric giace vicino alla porta, colpito e ucciso da un colpo di fulmine.
Tratto da Lo Slalom e Il Poltronauta