È il 23 dicembre 1981 allo stadio Monumental di Buenos Aires si svolge una premiazione. Infatti lui è vestito da gran sera: camicia bianca a collo largo, pantalone a campana nerissimo. D’altronde per l’anno corrente, il referendum della rivista “El Grafico” elegge Julio Cèsar Uribe Flores terzo miglior calciatore del Sudamerica dietro Maradona e Zico. Che per un essere umano è come arrivare primo.
“Sono una mezza punta di movimento”. Uribe viene da Montevideo: inserimento centrale, tocco col mancino e palla in buca d’angolo. Dopo una grande progressione, che è uno dei suoi punti di forza. Così porta il Perù al Mundial. Si ritrova un fisico da atleta e piedi da esposizione, per un dribbling che da solo vale il prezzo del biglietto. Perché lui non salta semplicemente l’avversario. Ha un passo morbido e furtivo che tende a circuirlo. Qualche volta, con una punta di compiacimento barocco, torna incredibilmente indietro per saltarlo ancora. Poi ancora la rabona. E l’elastico, che in Perù nessuno aveva mai visto . “Da ragazzo lo facevo col destro. Poi applicandomi, l’ho fatto anche col sinistro”. Da quelle parti si dice che sia stato lui a inventare la cuchara (il cucchiaio). “Provavo a lungo in allenamento con Mosquera. Con lui ho fatto quarantatrè gol in quarantuno partite”. Perché in area, all’occorrenza, Uribe è un killer in guanti gialli. Ovviamente ha anche un soprannome: “El Diamante Negro”, copyright della stampa argentina.
Prima di incrociarlo al Mundial, Bearzot lo omaggia così: “Uribe è più elegante di Maradona”. L’ha visto quella sera, al Parco dei Principi : Francia – Perù. È il 28 aprile 1982, un’amichevole per scaldare i motori. Già al quarto minuto, splendido duetto con Oblitas e palla dentro: annullato, anche se nessuno capisce perchè. In mezzo Cueto e Velàsquez soffocano Platini e Tigana. El Diamante parte dal centro sinistra . Da un suo splendido taglio, nasce il gol della vittoria di Oblitas quasi allo scadere. “Tenìamos un equipazo. E siamo uniti perchè è molto importante il compañerismo. Giochiamo a biliardo, organizziamo incontri di boxe. Ho battuto Quiroga e Gorriti. E balliamo salsa. Una volta mi ha sfidato Oscar Arizaga: l’ho distrutto e mi hanno applaudito”.
Qualcuno dice che sia arrogante. Lo guardano tutti anche negli spogliatoi: tunica d’argento, sandali di marca, asciugamano, borsa da toilette. Solo Cueto si azzarda a scherzarci su: “Ecco il pugile, Uribe the Kid”. Si vince anche a Budapest, lui sale ancora in cattedra. Ancora un’ amichevole contro una mista Milaninter: San Siro è il palcoscenico giusto per ammirare le sue movenze. La sorpresa sul campo è nulla rispetto a quanto accade negli spogliatoi. Perché dopo sole due battute, un giornalista scopre che el Diamante parla l’italiano meglio di Brady e Falcao messi insieme: “Sto già studiando da qualche mese. Spero che non sia una fatica inutile. Verrei subito a giocare da voi, in qualsiasi squadra. Se qualcuno busserà alla porta dello Sporting Cristal , sarà ben accetto”.
Sa che in Italia la legione straniera sta arricchendosi con Passarella, Boniek, Platini e Ramon Diaz. E il suo compagno Barbadillo, che è stato prenotato dall’Avellino. Potrebbe diventare il campionato più bello del mondo e lui non vuole mancare.
Eccelle in fretta anche nel listino prezzi. Liedholm sarebbe pronto a fare pazzie per portarlo a Roma. Si mettono in coda Napoli e Torino. Lui mostra di preferire la Capitale e, intanto, inizia a studiare anche l’inglese. “Il calcio non si gioca con i piedi, ma con la testa . Io sono ‘hombre frontal’, uno che dice le cose come stanno. Volevo diventare un campione della boxe, ma poi sono passato al calcio” Perché Uribe? “Il calcio è meno faticoso e più divertente . E quando ne dribblo tre o quattro, provo piacere”. Ha una moglie bianca e due figli.
Una radio di Lima trasmette in diretta l’ arrivo della Blanquirroja a La Coruña. Arrivano al traino in cinquemila anche dagli altopiani andini. Una splendida e festosa mescolanza di razze. Il tecnico del Perù si chiama Elba de Pàdua Lima , ma per nostra fortuna tutti lo chiamano Tim. È un uomo mite di quasi settant’anni. Punta anche lui sulla testa del calciatore. Per questo ha paura dei troppi elogi: “ Siamo una squadra brasiliana fino al collo, ma senza cervello. Innamorata di se stessa. Non disposta a capire che il calcio va assecondato con la lotta quando la tecnica non basta ”. El Diamante gonfia il petto, studia da capitano. Buoni e vacui propositi: ”Al Mundial scavalcherò Maradona e Zico. Non mi basta essere il migliore in Perù. Voglio esserlo del mondo. C’è differenza tra leader e capo. Ma se sei capo, devi essere anche leader. Per la qualificazione, nessun problema. È solo questione di tempo. Resta da stabilire chi ci accompagnerà “.
La prima partita sembra la più facile. Tutto è pronto, Uribe maglia numero 9 e Cubillas con la 10 battono il calcio d’inizio. Conta solo il numero dei gol da fare. Qualcuno porta il pallottoliere? E finisce 0-0. “Col Camerun non abbiamo imposto il nostro gioco. Nel calcio non c’è logica. È questo che lo rende màs extraordinario”. C’è l’Italia. El Diamante è guardato da vicino: “Collovati è un po’ duro, ma non è cattivo . Buon giocatore. Un colpo alla coscia in parte mi ha bloccato”. Ed è ancora pareggio. Ormai Tim lo ha fatto traslocare: “Cubillas era stato fischiato durante un’amichevole col Santos. Quando Tim mi ha spostato più avanti per far posto a lui , ho accettato. L’ho fatto per il mio paese”.
Contro la Polonia, el Diamante entra a partita iniziata. Giusto in tempo per partecipare al fracaso: “Doveva essere un successo, ma è stato un fallimento. Non ho mai avuto un dialogo con Tim e certo non si può vivere col nemico. Come allenatore puoi sbagliare tatticamente, ma non sulla disciplina. Quella non è negoziabile. Abbiamo pagato l’assenza di una leadership e l’immaturità di qualcuno”.
Anche se le quotazioni calano, la biografia di Uribe continua a girare in Europa. Ha trascorso la sua infanzia ai Barrios Altos, quasi al Crocevia di Vargas Llosa . Papà Uribe è falegname, la madre lavora in una mensa operaia e sei figli: “Con i miei fratelli dormivamo tutti dentro un letto a due posti. Ma sognavamo lo stesso. Avevo otto anni quando ho iniziato a giocare a pallone. A Lima si gioca dappertutto. Nelle strade, nei cortili e in qualsiasi spiazzo dove si possano mettere due pietre per delimitare la porta. Ero piccolo e mi arrampicavo su un muretto per seguire le partite dei ragazzi più grandi. Se ne mancava uno, mi chiamavano. Così ho iniziato a giocare a calcio. I miei idoli erano Chumpitaz e Cubillas, i miei futuri compagni ”.
Il Mundial è appena finito e il Cagliari fa l’offerta. Siamo fuori tempo massimo da noi, ma in Lega si apre una maglia. Parte per convincerlo il signor Riva, nel senso di Luigi: “Uribe è un tipo alla Beccalossi. Forse meno tecnico , ma molto più potente”.Giagnoni entusiasta, fa l’addetto stampa e annuncia l’acquisto. Perché lo vede già danzare sul prato verde: “Adesso tutta la Sardegna può sognare. Ai mondiali Uribe ha deluso perché ha giocato di punta. Lui deve partire da lontano”. Guadagnerà duecentomila dollari l’anno. Dieci volte quanto prendeva in Perù. Si fa attendere. Arriva poco prima di Ferragosto: “Domando un po’ di pazienza perché so giocare al calcio e in poco tempo riuscirò ad adattarmi al tipo di gioco che si pratica in Italia. Ho ancora molto da imparare, ma ho fatto molti sacrifici per diventare un calciatore di livello mondiale”. Chiede la maglia: la numero 10. Serata di Coppa Italia contro il Palermo. Giagnoni non riesce più a tenerlo in panchina, perchè la gente lo invoca. Gli fa posto Walter Mazzarri. Ma venti giorni dopo el Diamante è confinato ancora al part – time: “Non capisco perché il Cagliari ha comprato un attaccante quando preferiva un difensore. Uno come me, che ha vinto tre scudetti, che gioca in Nazionale , non può fare la riserva. Soprattutto in una squadra che lotta per la salvezza. Il Cagliari dovrebbe rischiare di più e cercare il gol, perché difendere è la cosa più semplice. A queste condizioni non ci sto. La società dovrebbe parlare chiaro. Altrimenti potrei anche andarmene. E i soldi sono un accessorio”. Per punizione gi tolgono il numero 10.
Il suo motto è : “Dame que te doy” , “dammi quello che ti do”. E a ottobre ingrana. Gran partita col Torino, serve un super Terraneo. Poi si va a Firenze: il Cagliari è sul fondo classifica. Intorno a Uribe la squadra balbetta. Segna Passarella, uno con cui el Diamante ha sempre avuto un dialogo aperto: “Una volta mi disse ‘Negro de mierda, hijo de puta, te vamos a matar’. Mi sono messo a ridere e gli ho tirato uno schiaffone. Ma mica per il ‘negro’, per l’offesa a mia madre”. El Diamante segna il gol dell’1-2 . Conquista un rigore, ma non glielo danno. Il Cagliari vola con nove punti in sei partite. “Devi sempre cercare di migliorare e non pensare mai di essere meno di chiunque altro”. Non sembra nemmeno soffrire il passaggio alla marcatura a uomo: “Gioco contro la migliore scuola di difensori al mondo, ma non mi spaventano affatto”. Nemmeno Claudio Gentile? “Porterò la sua foto con me, se volete. Per farmi perdere la pazienza ci vuole ben altro ”. Il duello epico è subito dopo Capodanno al Comunale di Torino. Gentile ha studiato : “Non devo farlo girare”. Stavolta el Diamante passa dall’epica all’etica: “In Sudamerica c’è l’abitudine diffusa di dare la caccia all’uomo più pericoloso della squadra avversaria. Ma io cerco sempre di rispondere alla violenza con un calcio bello, pulito . E mi arrabbio quando i miei compagni non fanno altrettanto. Gentile mi ha fatto male. Credo sia stato più cattivo con me che con Zico e Maradona”. Ma è felice perché dal Perù è venuto a vederlo suo padre. E gli ha fatto i complimenti. Il Cagliari prende un bel punto, Platini fischiatissimo.
“A undici anni ho fatto una promessa a mia madre: le avrei comprato la casa giocando a calcio. A ventiquattro l’ho mantenuta. Quindi prima di venire in Italia. Se non avessi fatto il calciatore, forse avrei fatto il choro, il ladro . Una volta i miei amici del quartiere mi spinsero a rubare un portafoglio. A uno che stava passando nel quartiere. Lo presi e scappai. A metà della corsa mi sono girato e l’ho ributtato. Mi sono nascosto nelle braccia di mia madre. E quando sono venuti i poliziotti, niente carcere. Ma ho dovuto lavorare per ripagare. Poi ho fatto il meccanico. Il calcio mi ha permesso di essere felice, di essere una brava persona. I miei genitori e i miei fratelli mi hanno sempre supportato e Dio mi ha dato le qualità per renderli felici. E sono stato coerente con la mia missione: zero divertimenti, zero alcol”. Fino a quel rigore a San Siro. “Doveva tirarlo Piras, ma non se la sentiva. Quindi toccava a Marchetti , come ha indicato il tecnico. Ma io ero sicuro di farcela. Ho colpito la palla con l’intenzione di infilarla nell’angolino basso alla destra di Bordon”. Ma spadella: palla sopra la traversa. Infortuni e col Pisa l’oltraggio ai compagni: el Diamante rifiuta la panchina. “Ho fatto un errore. Per rimediare ho portato tutta la squadra a cena”. Niente. Si va inconsapevolmente incontro alla serie B. A Verona sembra una partita come un’altra. Lui è dentro dall’inizio. Dopo meno di venti minuti la butta dentro. Gol decisivo. Ed è il migliore in campo: “Oggi ho preso ancora un sacco di botte, ma il pensiero di giocare bene è stato più forte del dolore”. Quando va a battere un angolo , dalla curva veronese parte un lancio di banane. In Italia , el Diamante Uribe consegue un primato: è il primo calciatore di colore insultato per il colore della pelle. Lui reagisce ignorandoli. E capisce di non essere approdato nel campionato più bello del mondo, ma in uno dei più razzisti: “Siamo tutti esseri umani e siamo uguali”.
Ernesto Consolo