Un regalo di natale, per Raimondo e Orsola. Il piccolo Roberto, secondogenito di casa Bettega, si presenta al mondo il 27 dicembre 1950 in una casa della periferia torinese. Appena fuori dal centro, dove nasce Robertino, si respira un’altra vita. c’è l’anima proletaria, c’è il mestiere che sporca le mani e purifica i sentimenti. Papà Raimondo fa il carrozziere, mamma Orsola la maestra. né stenti né stravizi, la vita scorre tranquilla. Fino all’illuminazione. che arriva secca, precisa, nel cuore e nella mente di un ragazzino di appena sette anni. e nel cuore del tifo, in mezzo alla curva Filadelfia del Comunale di Torino, in un pomeriggio da derby. di qua la Juve, di là il Toro. Robertino dipinge di bianconero il sangue che gli scorre nelle vene e si innamora del pallone.
Il primo maestro, storico per tutti i marmocchi che si presentano in quegli anni ai cancelli bianconeri, si chiama Mario Pedrale. Robertino si appassiona e s’impegna, e nel frattempo Madre natura fa il resto: a tredici anni il diminutivo diventa fuori luogo, per un ragazzo che è cresciuto fino a toccare quota 170 centimetri. Quando Pedrale lo consegna a Ercole Rabitti, che lo aggrega alla prima squadra per la stagione 1968-‘69, spende le prime frasi profetiche: “Io dico che è nato attaccante. Se il fisico lo sorregge, può diventare una punta alla Charles”.
Ma in effetti cerca la prova del nove parcheggiandolo in prestito per un anno a farsi le ossa. La stazione prescelta è quella di Varese, Serie B. Alla guida c’è il grande Nils Liedholm che crede nei giovani. Il neppure ventenne Bettega lo ripaga delle attenzioni. Prima stagione vera da professionista, 30 presenze e 13 reti in Serie B.
Tornato alla Juve, memorabile il gol da antologia nella doppietta rifilata al Milan (colpo di tacco in acrobazia che beffa il “ragno nero” Cudicini, e il grande Nereo Rocco si toglie il cappello in segno d’ammirazione). Ma il destino si presenta col ghigno malefico dell’esattore, c’è sempre un tributo da pagare al successo e questa volta tocca a lui. 14 partite, 10 gol, papà Raimondo è pieno d’orgoglio e i cuori bianconeri impazziscono di gioia: sembra la consacrazione, ma un pomeriggio di pioggia e gelo, dopo l’ennesima rete alla Fiorentina, la vita cambia all’improvviso.
Gli piomba addosso una tosse fastidiosa, insistente. Entra in clinica l’1 gennaio del ‘72 e la diagnosi è impietosa: affezione infiammatoria all’apparato respiratorio. È pleurite, per capirci: la stagione è finita. Roberto fa in tempo a unirsi ai compagni a primavera, nel pomeriggio felice in cui si brinda allo scudetto. dopo la malattia la determinazione raddoppia. Il 24 settembre del ‘72, a Bologna, Roberto Bettega torna in campo accolto dagli applausi. Ha vinto una battaglia difficile, ne è uscito più forte dentro. Lo dimostra in campo, trascinando la Juve al secondo scudetto consecutivo. A chiamare forse tardivamente Bettega in nazionale è nientemeno che Fulvio Bernardini, profeta del calcio dei “piedi buoni”, facendo esordire il campione bianconero contro la Finlandia, il 5 giugno del ‘75, in una squadra azzurro-juventina. La consacrazione è opera di Enzo Bearzot, che del Bettega azzurro sarà il vero mentore. La nuova Italia, coraggiosa e allegramente sfacciata, sicura dei propri mezzi, nasce intorno a Bobby Gol, alle sue reti, attaccante mai avulso dal gioco.
La fiducia del friulano Bearzot è ripagata da una perla da consegnare agli annali: il sublime gol di testa che il 17 novembre del ‘76 regala all’Italia il successo sull’Inghilterra all’Olimpico, oltre a una certezza in più sulla strada verso il Mondiale d’Argentina. In Argentina, Bettega disputa l’unico Mondiale della sua carriera: brillante dal punto di vista del gioco e sfiorando anche il grande risultato.
Il campione potrebbe rifarsi nel 1982, se soltanto la sorte non gli si mettesse contro. Per la nazionale di Bearzot, che in Spagna vuol giocare da protagonista, Bettega è un punto fermo. Purtroppo nella serata maledetta di coppa dei campioni del 4 novembre dell’81, quando a Torino si gioca Juventus-Anderlecht, Bettega ha un terrificante impatto con Munaron, il portiere belga, e resta a terra.
La diagnosi è impietosa, proprio come accadde nel ‘72: distacco del legamento collaterale-mediale del ginocchio sinistro, stagione finita, viaggio in Spagna cancellato. dopo l’infortunio però Bettega, torinese duro, testardo e taciturno, continua la sua brillante carriera ed è ancora campione d’Italia nella stagione ‘81-‘82, e l’anno dopo agguanta la Coppa Italia e va all’attacco del trofeo più ambito dai club europei: vorrebbe chiudere in bellezza con la sua ultima apparizione ufficiale in maglia bianconera ad Atene. Si gioca la finale di Coppa dei Campioni: di fronte alla Juve del Trap c’è l’Amburgo, e i bianconeri sulla carta sono i favoriti d’obbligo, fino all’incredibile goal di Felix Magath.
Il campione ha i capelli grigi e per l’ultima recita si è assicurato un ruolo nella Juve forse più bella degli ultimi vent’anni, accanto agli uomini del futuro: Platini, Rossi, Boniek.
Roberto Bettega chiude con questi numeri: in 13 anni 481 presenze ufficiali (326 partite in campionato, 73 in Coppa Italia, 82 nelle grandi manifestazioni internazionali), trovando la strada della rete in 178 occasioni (129 in campionato, 22 in coppa Italia e 27 sulle ribalte europee). Ha vinto 7 scudetti (il primo nel ‘72, l’ultimo nell’82), 2 coppe Italia (nel ‘79 e nell’83), una coppa Uefa (nel ‘77).