C’è chi impara a nuotare gradualmente, seguendo passo dopo passo scrupolose lezioni di nuoto, e chi invece magari viene gettato in mare di schianto, e così giocoforza è costretto subito a restare a galla. Ecco, a Renato Buso è toccata la seconda opzione, e lui non solo riusciva a galleggiare, in una serie A zeppa di campioni, ma sfoggiava sin dall’inizio uno stile innato, tanto da passare agli onori della cronaca sportiva in batter d’occhio, come in passato era riuscito forse solo al Golden Boy per eccellenza, Gianni Rivera.
Siamo nell’ottobre del 1986, reduci dal trionfo mondiale di Maradona in Messico; Tom Cruise è appeso in tutte le camere delle adolescenti; Gorbacev e Reagan stanno disgelando i rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica; alla tivù spopola DeeJay Television, condotto da un giovane Gerry Scotti ancora capelluto; alla radio Madonna spopola con True Blue, e la Juventus campione d’Italia arranca in campionato a causa delle tantissime assenze per infortunio: mancano in un sol colpo Platini, Laudrup e Serena, non proprio i più scarsi. E allora a Firenze, in un agitato e mai banale Fiorentina-Juventus, tocca al ragazzino, Renato Buso, che neanche a farlo apposta deve indossare il numero 9 di Aldo Serena, suo compaesano di Treviso, di una decina d’anni pù grande sì, ma alto allo stesso modo.
Sì, perché Renato, studente al terzo anno di ragioneria, nonostante il volto imberbe tradisca un po’di timidezza, è già fisicamente pronto per il calcio che conta, e la Juve se n’è accorta, eccome, ed allora Marchesi lo butta in campo come si fa con un bambino in acqua.
La partita termina 1-1, e Buso, marcato da Claudio Gentile, non proprio l’ultimo arrivato, fa più che una buona figura, e si appresta a tornare il lunedì a scuola come un enfant prodige.
Ha solo sedici anni e nove mesi, ma da lì in poi diventa linfa vitale di una Juve in un anno turbolento. La settimana successiva segna il suo primo gol ad Ascoli, e il giorno dopo a ricreazione deve raccontare del suo diagonale secco e perentorio più e più volte a tutti i compagni che glielo chiedono, magari in cambio di una Girella o un Soldino.
Il ragazzo ha un talento innato e pare avere un carattere imperturbabile: è longilineo, abile nell’assistere la manovra d’attacco, bravo di testa quasi come il suo compaesano Serena, ma più elegante, perché ha il baricentro basso. Non parla, ma non balbetta mai, in campo.
La stagione si concluderà con 14 presenze in A, e anche con un gol in Coppa Italia, con annessa giustificazione per l’interrogazione di ragioneria del giovedì. L’anno successivo non c’è più Platini, di cui Renato è sempre stato un grande ammiratore; arriva il centravanti gallese Rush, e Buso aggiunge un gol in più rispetto all’anno precedente, che per uno che non ha ancora la patente è comunque tanta roba.
Il terzo anno in bianconero è quello della presa di coscienza del proprio potenziale, e del definitivo passaggio ad adulto: con Zoff in panchina, coadiuvato dal piccolo portoghese Rui Barros,con cui forma un tandem assortito e improbabile, sostituisce spesso uno Spillo Altobelli ormai sul viale del tramonto, e contribuisce con ben sette reti alla conquista del quarto posto in classifica, che significa qualificazione alla Coppa Uefa. Memorabile una sua doppietta al San Paolo, che annichilisce il Napoli di Maradona e che vendica il 3-5 di Torino con un altrettanto roboante 2-4 al San Paolo: gol rapinoso sulla linea di porta dopo scorribanda di Miki Laudrup, e bolide sotto la traversa a trafiggere Giuliani e il cuore del tifo assiepato a Fuorigrotta.
Tutti si aspettano la riconferma di questo spilungone ormai maggiorenne, ma l’anno successivo Madama, che ha invano corteggiato il brasiliano del Toro Muller, punta sul capocannoniere cadetto del Messina, tale Totò Schillaci, e su un giovane prospetto, anche se non quanto lo era lui due anni prima: Pierluigi Casiraghi.
Inoltre i bianconeri hanno messo gli occhi sul più talentuoso giocatore italiano, di proprietà viola, e se vogliono battere la concorrenza del Milan devono dare una caparra. Renato va alla Fiorentina, proprio nella squadra contro cui fece il suo esordio.
Non solo, ma il destino regala al ragazzo riccioluto la possibilità di giocare la finale di Coppa Uefa proprio da ex contro la Juve, ormai sostenuto dalla tifoseria gigliata che all’inizio lo additava solo come “gobbo”, e non certo per l’incedere in campo, che è sempre a petto in fuori. Al Comunale va in vantaggio la Juve dopo pochi minuti con Galia, ma una manciata di minuti dopo è proprio Buso che si avventa su un cross dalla sinistra ed anticipa Tacconi per siglare il momentaneo pareggio: la vendetta è servita, e lui,come si faceva negli anni novanta, esulta felice.
Purtroppo per lui, invano, perché la partita terminerà 3-1 e la coppa, dopo lo 0-0 di ritorno sul neutro di Avellino, andrà alla sua ex squadra, quella per cui una volta faceva il tifo. Un’altra stagione a Firenze, agli ordini di Sebastiao Lazaroni, che ne pronuncia in maniera pittoresca il cognome alla brasiliana, trasformandolo in “Busu”, lascia presagire che il picco della parabola è già stato raggiunto e che, di lì in poi, complici anche i fastidi alla schiena di questo centravanti alto e magro,sarà un lento declivio. Rimane però da incorniciare un gol in rovesciata dal limite dell’area contro il Pisa, degno dell’accostamento alla cinematografica bicicletta di Pelè in”Fuga per la vittoria”. Va alla Sampdoria di Vialli e Mancini, dove comincia a trasformarsi in ala, e dove comunque disputa, seppur da subentrato a Luca, una finale di Coppa Campioni, l’ultima a poter esser così nomenclata, prima dell’avvento del carrozzone della Champions League. Fa in tempo ad assistere sul prato di Wembley alla sventola di Rambo Koeman che decide il match.
Ma soprattutto fa in tempo a ritagliarsi un mese da assoluto protagonista in Nazionale, seppur quella Under 21, dove riesce a imporsi come capocannoniere degli Europei di categoria, portando gli azzurrini al trionfo siglando un gol anche in finale contro la Svezia. Da Genova poi si trasferisce a Napoli, dove ormai la sua metamorfosi in ala si è completata, poi una piccola e infausta parentesi alla Lazio; gli sgoccioli di serie A a Piacenza, ma sono briciole di un croissant che era stato già divorato a grandi e voraci morsi nei primissimi anni di carriera, quelli in cui salì alla ribalta d’improvviso, proprio come nei soliti anni fecero i Guns ‘n Roses, e che nel lasso di un lustro si dissolsero dopo aver pubblicato il loro ultimo grande album,dal titolo Use your illusion: e Buso la utilizzò tutta quell’illusione con cui inebriò l’intero stivale calciofilo quando ancora era uno scolaretto che guardava DeeJay Televison, la sua personale e indimenticabile illusione dei gol.
Marco Murri