Essere del Torino non è una forma di ribellione fine a se stessa. Forse non è nemmeno una forma di ribellione vera e propria, forse è essere del Torino vuol dire essere del Torino e basta. Oggi ci appare come un atto ostinato e contrario perché mezza Italia tifa l’altra squadra torinese, ma non è affatto così. È innegabile, però, che essere del Torino non sia banale o monotono. Il Toro, per chi lo sostiene, è uno stile di vita. Nei Duemila, forse anche a causa delle alterne fortune delle squadre della città, questo particolare si è visto in misura minore, ma cinquant’anni fa parteggiare per il Toro o per la Juve significava appartenere a due mondi diametralmente opposti.
I bianconeri erano la squadra della Fiat, i giocatori erano belli e vincenti, mai schierati politicamente se non di nascosto. Il Torino era già quello che la leggenda tramanda di bocca in bocca: l’estro, la sregolatezza, il genio. Quella variabile impazzita che spezza l’ordine delle cose.
Il Torino era Luigi Meroni, lui sì che era un ribelle. Ma di Meroni, ormai, è stato già detto tutto. Assieme a lui negli anni Sessanta gioca in granata un figlio d’arte, il padre – ala sinistra negli anni Trenta – era stato nientedimeno che il giocatore più prolifico nella storia del Messina, e lo è tutt’oggi.
Il figlio invece ha un ruolo meno poetico, il suo compito è fare legna in mezzo al campo e, quando capita, impostare la manovra. Si chiama Amilcare Ferretti, lo chiamano tutti Mirko. È nato ad Alessandria e ha iniziato a giocare tra la Sicilia e Canelli, per poi passare al Torino dove trova, per l’appunto Meroni.
Tanto La Farfalla è bohemienne e sotto i riflettori, quando Ferretti è schivo e operaio. Si diverte a leggere i quotidiani, è uno dei pochi calciatori a informarsi sui giornali. Lo vedono spesso a leggere, ha sotto braccio Vie Nuove o L’Unità. Sono giornali molto vicini al Partito comunista italiano, che in quel momento vive una svolta: è morto Togliatti, il segretario diviene Luigi Longo, nel segno della continuità con il Migliore. Amilcare Ferretti detto Mirko è comunista e non lo nasconde, nel segreto dell’urna Dio non lo guarda e Stalin sì. Sul finire degli anni Sessanta si va ridefinendo la figura del calciatore.
Il Torino ha un ruolo di primo piano, perché un calciatore non è più solo un giocatore, sta diventando un’icona. Se Meroni è il quinto Beatles, Ferretti è l’anima politica dello spogliatoio. Magari un po’ accigliato e severo, ma sempre deciso e orgoglioso. Non sbandiera la sua fede politica ai quattro venti, non fa aperture teatrali o retoriche, rimane sempre fedele alla linea – come farà per poco tempo un suo famoso omonimo, che in seguito però sposterà il tiro da Berlinguer a Benedetto XVI.
Questo suo rimanere in disparte ma essere ugualmente decisivo segnerà la sua vita, passata principalmente a lasciare umilmente la scena ad altri. Nel Torino di Nereo Rocco è vice capitano, perché la fascia va sul braccio di Giorgio Ferrini, altra figura che incarna al massimo le virtù granata e sulla quale bisognerebbe aprire una sterminata bibliografia. Il rapporto tra Ferrini e Ferretti è straordinario, sono entrambi esempi di attaccamento alla maglia. Addirittura lo storico capitano concede la fascia al compagno in qualche – rarissima – circostanza. Non mollano mai, soprattutto con la Juventus. Famoso è un siparietto in un derby del 1963 quando Ferretti viene colpito da Castano e Ferrini corre a dirimere il parapiglia. Poi, vabbeh, lo dirime a modo suo ma questo non conta.
Diventa un simbolo del Torino pur rimanendoci solamente quattro anni, ma sono quattro stagioni di fervida passione, trincerata dietro alla figura di calciatore proletario, con il cuore – granata, rigorosamente granata – molto più a sinistra del normale. Una variazione sul tema per il calcio italiano e per la città, abituata allo strapotere della Fiat e al calcio rigoroso degli Agnelli in tenuta bianca e nera.
Lo raccontano straordinariamente Michele Ruggiero e Alessandra Demichelis in “Una vita da secondo. Storia di Mirko Ferretti, l’allenatore nell’ombra“: Ferretti è il prodromo del cambiamento. Non a caso in quegli anni Sergio Campana fa nascere l’Associazione italiana calciatori. Amilcare detto Mirko si ritira nel 1967 con la maglia dell’Alessandria, quasi a farlo apposta per vivere appieno il ’68. E lì sì che il cambiamento avviene.
Il suo personale punto di svolta avviene dopo aver tentato la sua carriera da allenatore in solitaria. Poco dopo aver vinto il campionato di Serie D con l’Albese, nel 1976 arriva una chiamata importante, è quella del Torino. Guida la Primavera del suo Toro, ci rimane due anni e poi ecco che inizia il magico sodalizio con Gigi Radice, che a Torino qualche ricordo l’ha lasciato. Fa il secondo al tecnico lombardo e rimane con lui quattro anni, condividendo le gioie granata e l’esonero al Milan, con in mezzo il Bologna. Sostituisce pure Radice quando questi è vittima del tremendo incidente in cui perde la vita Barison. Prende le redini per quattro giornate nel 1978-79 e conclude la stagione al quarto posto, un punto dietro alla Juventus. Anche in questo caso una piccola deviazione alla sua carriera da secondo, a suo agio nel dare i consigli a Radice e godersi la mimica del suo collega.
Essere il vice però non vuol mica dire rimanere fermi, è un ruolo fondamentale, è il collante tra tecnico e squadra. C’è da sgobbare parecchio ma per Ferretti non è un problema perché lo faceva in campo e lo ha fatto per tutta la sua vita. La sua simpatia per il Pci gli causa non pochi problemi: verso di lui nascono pregiudizi e ostacoli. Non da parte del democristiano Rocco, che per tutta la sua militanza torinese non gli ha mai negato la maglia da titolare.
C’è chi pensa che la sua fede politica gli abbia precluso molte possibilità. Di sicuro non lo ha aiutato, questo è poco ma sicuro. Ma Amilcare detto Mirko non ci pensa, e oggi a 84 anni ricorda sorridente il periodo granata, quando i calciatori si confessavano da lui, quando era suo il compito di tenere unito lo spogliatoio. In un calcio che stava per cambiare, Ferretti è stato un punto di riferimento per i tifosi di sinistra e per i fan del Toro in generale.
Ha incarnato i valori del Torino e ha fatto scattare in molti l’amore per un colore, il granata, che rischiava di rimanere offuscato dal bianconero.