Nella giornata di ieri è arrivata la notizia della scomparsa di Gianni Mura, storica firma del giornalismo italiano. Tra le persone che l’hanno voluto ricordare c’è l’amico Darwin Pastorin, che lo ha voluto ricordare con un contributo denso di umanità, sull’ Huffingtonpost.
Era un punto di riferimento vitale per tutti noi, Gianni Mura: una luce bianca, un appiglio sicuro, la mano tesa. Era il maestro burbero e generoso, il compagno, intelligente e ironico, di tante trasferte dietro a un pallone, sigarette e caffè, a parlare di letteratura, vino e canzoni, di quella volta al Tour de France, di quel romanzo di Simenon, di quando Gianni Rivera, di Sergio Endrigo e dei bianchi del Canavese.
Gianni era il fratello maggiore, il complimento inaspettato, la critica meritata. Se ne è andato a 74 anni, al primo germogliare di primavera e oggi, in tanti, ci sentiamo più soli, smarriti. Voglio dirgli grazie per i consigli, per gli abbracci, per i rimproveri: sì, come a un fratello maggiore. Ha raccolto, lui solo, l’eredità di Gianni Brera, per farsi uno stile tutto suo, inconfondibile, dove la parola non veniva mai sprecata (lui, che con le parole sapeva giocare), gli aggettivi erano perfetti, mai una volta ha chiesto conforto alla retorica, alla frase fatta o a effetto. La sua prosa era erba buona, pane in tavola. Era una boccata d’aria fresca. La critica si faceva pesante per i falsi e i furbi, per gli improvvisatori senza qualità, gli arroganti. La sua rubrica “Sette giorni di cattivi pensieri”, su Repubblica, rappresentava, per noi amici, estimatori, devoti o giornalisti, un appuntamento imperdibile: era il nostro rito laico della domenica. Con la “chiusa” dedicata, da un po’ di tempo, alla poesia.
Ci sentivamo, ci scrivevamo; l’ultima volta ci siamo visti, l’anno scorso, per il festival letterario “La grande invasione” di Ivrea. Una mattina insieme a fare la rassegna stampa dei fatti sportivi e non. Gianni riusciva sempre a trovare lo spunto spiazzante, il titolo da capovolgere, il riferimento appropriato. E come scordare quella serata, a cena, prima di un concerto di Neri Marcorè, a parlare e parlare e ancora parlare di Brera e Arpino, di quel loro assurdo litigio, di De André e dei Têtes de Bois, di un giornalismo che stava perdendo la strada del racconto, delle suole consumate: ma per i giovani colleghi aveva sempre una rosa, una carezza, un invito a non mollare.
Sapeva narrare, senza rivali, ciclisti e pedatori, atleti e pugili, con la moglie Paola ci portava, dalle colonne de “Il Venerdì” di Repubblica, in giro per l’Italia tra ristoranti e vini, scriveva libri gialli avvincenti: soprattutto sapeva scavare dentro il cuore, la fragilità e le vene aperte delle persone.
Era presidente del premio “L’Altropallone”, dove vinceva chi portava gesti e frasi contro il razzismo, l’intolleranza, per chi, nello sport, conosceva il bene della solidarietà e dell’altruismo. Gianni aveva un sorriso lieve, crepuscolare, e un profondo senso della giustizia. Gli mando questo mio ultimo abbraccio, il più forte. Con la promessa di non dimenticare, nemmeno per un attimo, i suoi insegnamenti. In tutto, con te, c’è stata bellezza. Ciao, fratello maggiore.