Ecco il bellissimo reportage di Ugo Splendore sulle tracce di Osvaldo Soriano. Uscito su “Il Manifesto” nel 2008.
Cinquant’anni fa battevano il rigore più lungo del mondo. Lo ha raccontato Osvaldo Soriano, giornalista e scrittore argentino, rendendo letterario un episodio avvenuto nei paraggi ostili e assolati della Valle de Rio Negro, nel nord della Patagonia: luoghi aridi e riciclati dal vento, bastonati dal sole e sculacciati dal freddo dell’inverno. Osvaldo Soriano se n’è andato il 29 gennaio 1997. Ha raccontato un calcio molto argentino, sgraziatamente eroico, a tratti surreale, spesso violento. Un calcio marcio negli arbitri, impuro nei modi ma lindo nei sentimenti.
El Gordo, il Grasso, come lo chiamavano gli amici, non diceva mai di preciso in che luogo erano accaduti i fatti che raccontava. Partiva da qualcosa di vero, e si vede, ma leggendo i racconti un po’ di dubbi ti si insinuano. Sono storie che provengono dalla dispensa dagli anni ’50-’60, tra folate di gloria e barbare pedate. Narrano di allenatori visionari e portieri-eroi, come il Gato Diaz che parò il rigore più lungo del mondo. Un racconto davvero d’altri tempi. Una squadraccia, la Estrella Polar, arriva a giocarsi il titolo di un campionataccio con lo squadrone che da 16 anni non molla il trono, il Deportivo Belgrano, al quale basta un pari. L’Estrella Polar va in vantaggio nel finale e l’arbitro, per salvare la pelle, s’inventa un rigore pro-Belgrano all’ultimo minuto. Uno dell’Estrella Polar lo stende con un pugno, si scatena un grande parapiglia, il match viene sospeso e la lega decide che una settimana dopo si va tutti al campo, si batte il rigore sotto il solleone e si torna a casa lessi.
Il rigore dura dunque sette giorni: un’eternità, per i protagonisti. E’ la settimana del Gato Diaz, portiere dell’Estrella Polar, forte e stagionato come un ottimo vino di Mendoza. Nel momento esatto del rigore, mentre il Gato para il tiro del bomber Constante Gauna, all’arbitro viene un attacco epilettico. Il rigore va di nuovo tirato, con l’arbitro sorretto dal guardalinee. Il Gato però è già un immortale e abbassa ancora la saracinesca. Inizia la sua leggenda. Soriano dice di aver incontrato quel monumento di portiere rigido dalla zazzera scintillante qualche anno dopo e di avergli fatto gol. Punto. Quel penalty leggendario dove è stato tirato? Esiste ancora quel campo sportivo, che in spagnolo è la ‘cancha’? Soriano ha fatto il perfido. Le sue indicazioni sono vaghe: «…un posto sperduto nella Valle de Rio Negro, nel 1958». Soriano aveva 14 anni e giocava nel Confluencia, un club di Cipolletti, una cittadina che prende il nome da Cesare Cipolletti, ingegnere idraulico che all’inizio del 900 ha ridisegnato i percorsi delle acque che vanno e vengono dalla città. Del Confluencia, meteora di quartiere, non rimane traccia. Il Cipolletti invece è un club che ha una storia a quattro ante. E’ del 1926, ha la maglia bianconera come la Juve. Oggi gioca nel Torneo Argentino A, la nostra serie C1. Ha uno stadio asfissiante da 11mila posti, tiene alla porta 18 tifosi identificati della «barra brava», il tifo violento, quelli che spaccano tutto. Sul portone d’ingresso della tifoseria ospite hanno scritto a spray: «Entra se vuoi, esci se puoi». Qui si dice che gli hooligans inglesi sono un piccolo panino che i tifosi di una barra brava mangiano a colazione.
Il presidente dell’odierno Cipolletti si chiama Julio Arriaga, è stato sindaco per otto anni. Ora è deputato nazionale. Usa il pallone per farsi notare. Il denaro vero lo mette lo sponsor, la Ops, un’azienda che lavora nel settore petrolifero della regione, che è anche terra di frutta, vino e ossa di dinosauro. Nei suoi 82 anni di vita il Cipolletti è stato per sei volte nella serie A argentina (1973, 1975, 1977, 1979, 1980 e 1985) e nel ‘77 ha anche battuto a domicilio il Boca Juniors. L’ultima amichevole dell’Argentina che nel 1978 vinse il Mondiale fatto in casa si disputò proprio su questo campo che oggi difende le cicatrici del tempo e va avanti come si fa in tanti prati da futbol del mondo: con la passione dei tifosi e la scorza dura dei dirigenti. A Miguel, il factotum del club, che qui chiamano «el utilero», grande fan del Boca Juniors, sei anni fa hanno trapiantato i reni: «Mi hanno salvato a Buenos Aires, nell’ospedale che sta a fianco dello stadio del Boca». Così, dice, ora non ha solo il cuore-Boca, ma anche i reni. Comunque non è qui, sul rettangolo in calle O’Higgins dove pascolano i sogni del Cipolletti, che hanno battuto il rigore più lungo del mondo. L’hanno tirato nei campi da tennis adiacenti, che fanno parte del complesso sportivo dalle mura bianco-scrostate piene di scritte a vernice spray. Evita! Noi non vi lasceremo mai! Basta rubare, presidenti!
La storia del penàl (il rigore) è un po’ diversa da quella raccontata da Soriano e i protagonisti hanno nomi differenti, anche se non mancano le assonanze. Ma è proprio dentro questa scoperta che si coglie la bravura del Gordo, grande firma giornalistica del quotidiano argentino Pagina/12 e anche del Manifesto, un talento narrativo che non usa i personaggi ma li esalta al punto da renderli immortali. E non è tanto per dire. Per ricostruire uno dei più pazzi rigori della storia del calcio ci vogliono un paio di giorni di indagini. Prima di tutto si deve andare a Cipolletti. Che non è una città di passaggio. Non rientra nelle rotte turistiche e vive all’ombra di Neuquen, 350mila abitanti contro gli 80mila di «Cipo». A Cipolletti molti vecchi se ne sono andati e molti giovani non sanno chi è Osvaldo Soriano. Eppure la casa dove è cresciuto il Gordo, nato a Mar del Plata ma trasferitosi a Cipolletti con il padre, ispettore degli acquedotti, quando aveva tre anni, è tra le attrazioni della città, stando al sito internet. Il taxista indolente non lo ha mai sentito nominare. Porta un orecchino, occhiali da sole molto finti e un tatuaggio di Maradona sul bicipite floscio. La titolare di un albergo in centro, volto stanco e capelli che sembrano essere stati perquisiti da poco dalla polizia di frontiera, dice che il nome non gli suona nuovo.
– Ma sa chi è Soriano, o no?
– No.
Per fortuna c’è il barista Charlie Garcia, occhi profondi e denti un po’ in disordine, con in tasca numeri di telefono che fanno la differenza. Ti manda subito da Carlos Alberto Segovia, notaio, 72 anni ben portati, che ha conosciuto Soriano pochi anni prima della morte ad un incontro sui diritti umani all’università di Neuquen. Soriano, volato in Europa nel 1976 per dribblare la dittatura argentina, era uno dal quale si poteva ricevere infinite lezioni su questo tema. Come i cileni Skarmeta e Sepulveda. Lo studio di Segovia è bianco, dietro la scrivania c’è una riproduzione di un quadro di Picasso, Guernica. Segovia ricorda di Soriano quello che ricordano in molti: che viveva di notte e dormiva di giorno. Chiamava gli amici e li teneva al telefono per ore. Da Parigi spendeva un capitale per sapere cosa aveva fatto la sua squadra del cuore, il San Lorenzo de Almagro. «Io sono tifoso del Boca – dice Segovia – Lui invece preferiva un club come il San Lorenzo perchè era un qualcosa che nasceva dal popolo. Uno scrittore amico di Soriano, Osvaldo Bayer, lo prendeva in giro perché Soriano era ateo e il San Lorenzo portava il nome di un santo ed era stato fondato da un prete. Vede, il football è un parametro della vita argentina e su quello si basano molte cose qui da noi. Soriano era uno del popolo. E’ ancora aperto il dibattito su cosa abbia lasciato la sua letteratura. Qualcuno insiste nel definirla di intrattenimento. Invece ha una profondità vera, signori miei». Segovia sa molto del calcio argentino. Snocciola nomi di grandi giocatori, cita i miti del Boca, da Carlos Sosa a Ernesto Lazzati, che veniva chiamato «el pibe de oro» ben prima di Maradona. Gente degli anni 50.
Poi, d’impulso, il notaio alza la cornetta e chiama Josè ‘Pepe’ Santos, amico d’infanzia di Soriano. Forse è l’unico rimasto in circolazione in questa città cosí lontana dalle pennellate dei ricordi del Gordo. Pepe Santos, 67 anni, è direttore della contabilità della città di Neuquen. La sua libreria contiene quattromila titoli e naturalmente ci sono tutti i libri di Soriano. Ha trascorso l’infanzia con il Gordo, che era più giovane di lui di tre anni: «Io leggevo e andavo al cinema. Lui si faceva raccontare tutto e ascoltava: era come se leggesse e vedesse. Non scriveva. Per non prenderle dalla madre si arrampicava sul pero davanti a casa. Giocava male a pallone: aveva le gambe storte e una bella castagna, niente più. Peró aveva una mente superiore, era un pensatore».
Pepe Santos è ingrassato da quando ha smesso di fumare. Prende delle pastiglie per lo stomaco e tiene sotto tiro i reni. Ha radici italiane: padre di Roccella Jonica, madre di Montelepre, sotto Palermo. Il cognome del padre era Santo, c’è scappata una esse all’anagrafe. Pepe adora Dino Buzzati, guarda il campionato italiano e simpatizza per la Reggina, cosí vicina al suo albero genealogico. Di Soriano ha perso le tracce quando il Gordo se n’è andato a Buenos Aires a fare il giornalista. L’ha ritrovato 30 anni dopo a una Fiera dell’editoria a Buenos Aires. Era il 1996, il Gordo indossava un vestito color cannella, sudava e firmava autografi a uno stand. La memoria di Pepe non perdona: «Stava sotto un enorme cartello con scritto: vietato fumare. Teneva tra le dita un sigaro cubano più grosso di lui, ed era acceso naturalmente. Mi sono detto: non puoi che essere tu, grandissimo figlio di puttana. Mi sono messo in fila e quando mi ha riconosciuto mi ha abbracciato. Mentre uscivamo per andare a bere un caffè l’ho visto, come dire, più alto. Gli ho chiesto come se la passasse e lui mi ha detto: me ne sto andando. Andando dove? Sto morendo, amico mio. E mi ha stretto forte un braccio».
Pepe non ha più lacrime per commuoversi, ormai sono 12 anni che racconta questa storia. Dice che, nel male, è andata bene: morendo a 54 anni, Soriano non si è deteriorato, è rimasto irraggiungibile e la sua produzione è ancora folgorante. Un po’ come Carlos Gardel per il tango. Secondo Pepe, Cipolletti non fa abbastanza per ricordare Osvaldo Soriano. Ha messo una targa vicino alla vecchia casa dove abitava, nel mezzo del giardino, a due passi dal pero maestoso che fa ombra persino alla casa, la quale oggi è un ufficio di quelli delle acque. E qualcuno, quella targa, se l’è portata via, lasciando ancora più grande il vuoto intorno allo scrittore proprio nella città in cui scrittore è diventato assorbendo gioie e dolori di queste lande affannate nel cuore migratorio dell’Argentina. Alla fine Pepe, messo all’angolo, si ritrova davanti a un taccuino a ricostruire il rigore più lungo del mondo. Abbassa la testa e fa sbucare lo sguardo da sopra gli occhiali da lettura poggiati su una gobba del naso che sembra fatta apposta. Fissa il taccuino, scuote la testa: «Figlio di puttana, sì perchè era un gran figlio di puttana. Il Gordo ha fatto un gioco di prestigio. I fatti sono andati diversamente. Innanzitutto non era il 1958 ma il 1953, massimo 54». Allora non è 50 anni fa. Niente compleanno. Ma siamo sicuri? «Sono sicuro. Non era 50 anni fa. No, no e no».
Ecco allora come è andata. Nella zona di Cipolletti, che all’epoca era molto più grande di Neuquen, c’è la Lega Deportiva Confluencia. Vi partecipano cinque club cittadini e una decina dai paesi limitrofi. Il club del Cipolletti, sempre lui, disputa una stagione-monstre come non gli capitava da anni e si erge ad outsider della squadra più quotata, i «magos» dell’Union Allen Progresista, uno squadrone della vicina città di Allen, che si pronuncia ayèn ed è molto più piccola di Cipolletti. L’Union, che ha fatto le scarpe alla squadra più in voga di Allen, l’Evita Peron, ed è formata da giocatori provenienti dalla città di Rosario, guida il campionato fino all’ultima giornata, tallonata a -1 dal Cipolletti. Decide tutto il match in casa degli ‘albinegros’ del Cipo: ultima chiamata per la gloria. Tifosi in ribollente attesa, grande tensione. Il campo sportivo era minimalista. Non c’erano tribune, solo una staccionata. Gli spogliatoi erano una baracca sulla quale campeggiava la scritta: chi comanda in campo è solo l’arbitro. La cancha era sacra e i giocatori pure, i bambini conoscevano a memoria i loro nomi senza che ci fossero le figurine. Il match resta sullo 0-0 fino a 20 minuti dalla fine, quando l’arbitro decreta un rigore per il Cipolletti. Gli ospiti la prendono male e lo aggrediscono, i tifosi invadono il campo e tutto sfocia in una rissa di taglia extra large. Il disordine da tromba d’aria atterrisce l’arbitro che fischia la fine: che se la veda la Lega. In settimana arriva la sentenza-choc: i tafferugli erano poca cosa, l’arbitro non era in sé e gli toglieranno i gradi. La partita va terminata, ma a porte chiuse. Si riprende dal rigore. Poi, venti minuti di gioco divisi in una specie di due tempi supplementari da dieci.
La domenica dopo, il pubblico si assiepa al cancello e inizia a prendersi per il bavero con la polizia. Solo i bambini del luogo, che conoscono i pertugi come gli scoiattoli, s’intrufolano e vanno a nascondersi tra i rovi dietro la porta dove si tira il rigore. Pepe Santos è in prima fila, Soriano non si sa. Alle 15, sotto un sole mastodontico, le squadre entrano in campo. L’arbitro è tutto vestito di bianco e indossa pantaloni lunghi. Erano cosí gli arbitri dell’epoca: un elegante lutto al contrario. La palla è di quelle vecchie marroni, con la cucitura che quando la prendevi di testa ti tagliavi come i pugili. Questo dice Segovia. Secondo Pepe Santos la palla era invece bianca. Discutono. Non ne vengono a capo. Questo sarà l’argomento di cui parleranno nei prossimi anni ogni volta che si incontreranno. E lo faranno, eccome se lo faranno. In campo per il Cipolletti (maglia a strisce bianconere e calzoncini bianchi) ci sono fior di giocatori, su tutti l’urticante puntero Constante Rodriguez, il fenomenale bomber Hector Tito Padìn, Alberto Beto Alegre, Pedro Righetti, El Pirata Rivero, il portiere ‘Palito’ (Stuzzicadenti) Lorenzo e ‘Stampilla’ (Timbro) Osorio. Tra i magos (maglia bianca con una V sul petto rossa e blu, calzoncini grigi) c’è gente che fa cantare il pallone, perchè la scuola di Rosario è indiscutibilmente una delle migliori d’Argentina. Il portiere si chiama Benjamin, detto Tomate per via del volto rubizzo. E’ alto e magro, veste una maglia gialla e i pantaloncini neri, indossa le ginocchiere d’ordinanza dei portieri gratta-campo. Le sue mani sono nude, come tutti i numeri uno di quegli anni. L’Union schiera tra gli altri Elvio Cornide ‘Picciafuoco’, Juan Carlos Tarifa detto ‘El Lloron’, il Piagnone, Elino Maggi detto ‘El Gringo’, Eliseo Garcia, più il duo Rubio-Canale. Tutti piedi che non danno affatto del voi al pallone.
Sono le tre. Si inizia dal rigore. In campo ognuno sembra farsi i fatti suoi. Il portiere Benjamin va verso la porta con il terrore addosso, sembra uno zombie. La porta guarda a sud. Il nord inizia dove sono nascosti i bambini. Non si capisce che cosa succeda, lo que pasò, ma la storia cambia qui il suo corso. I grandi tiratori si defilano, Padín prende il pallone e va fiero verso il dischetto, poi confabula con il centromediano Righetti e gli lascia il pesante fardello. Persino i bambini si stupiscono: Righetti sarà pure una diga, ma non un violinista. Righetti sistema la palla sul dischetto, si allontana di quattro passi e quando l’arbitro fischia va lento sul pallone. Il tiro è inguardabile: la palla calciata da Righetti è una tartaruga centrale che Benjamin, sempre imbalsamato al centro della porta, si ritrova tra le gambe. La abbranca e si sveglia, comincia a correre avanti e indietro per l’area di rigore con quel trofeo in mano, festeggiato da suoi. Si perdono almeno cinque minuti, manca solo la foto-ricordo. Il padre di Padìn, al cancello, sente che è andata male e si mena con i tifosi dell’Union, tutti signori. Qui finisce il rigore più lungo del mondo e qui cominciano i 20 minuti più lunghi dell’Union, assediato dal Cipolletti. A pochi minuti dalla fine una palla schizza fuori area da una mischia e Osorio con una legnata paurosa quasi smonta la traversa. Si infrange sul ‘traversaño’ il sogno del Cipolletti: lo 0-0 laurea l’Union Allen Progresista di nuovo campione.
Hanno vinto i soliti noti, il rigore è una mezzaluna di storia dentro un mare smarrito. Le lacrime. I ricordi brucianti. I racconti che salgono su treni, autobus, utilitarie scassate. Allora che ne è del mitico portiere Gato Diaz? Un’invenzione poetica di Soriano, forse ispirata dalla figura di un Gato di quegli anni. Che ne è delle squadre Estrella Polar e Deportivo Belgrano? Esistevano, ma erano squadre di quartiere che hanno visto poche stagioni per poi infilarsi negli armadi della miseria, del cuore. Che ne è di tutti gli altri? Sono diventati polvere, sono diventati arte. Hanno dato calci a un pallone e in cambio si sono beccati l’eternità della letteratura. Un premio mica male per gente che veniva dal nulla, pur provenendo dal profondo nord della Patagonia argentina.