La lira d’oro della Capitale
Dic 18, 2025

La Roma di Liedholm, Falcão e una squadra intera diventata sinfonia

C’era un tempo in cui Roma tratteneva il respiro. Anni in cui il Tevere sembrava scorrere più lento, come se aspettasse un segno dal destino. Quel segno arrivò nella primavera del 1983, quando una squadra vestita di giallorosso decise di restituire alla città un orgoglio che mancava da quarantuno anni. Lo scudetto della Roma di Nils Liedholm e Paulo Roberto Falcão fu più di una vittoria: fu un’alba, un canto, una liberazione collettiva.

Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma: il suo impiego come difensore centrale, in questa stagione, diede ottimi risultati

Liedholm, il Barone, a Trigoria non allenava soltanto: accordava strumenti. Parlava con calma nordica, gestiva con filosofia latina. C’era un’eleganza naturale nel suo modo di porsi, nello sguardo con cui osservava le linee dei suoi giocatori muoversi come un’orchestra. E che orchestra era, quella Roma.

Roberto Pruzzo, migliore marcatore stagionale giallorosso (12), realizza il gol-scudetto nella trasferta di “Marassi”

Falcão ne era il primo violino, il direttore occulto: il Divino che accarezzava il pallone come si sfiora un amuleto. Ma in quella squadra, ogni interprete aveva la sua nota indispensabile. Roberto Pruzzo, il Bomber, riempiva l’area di presenza e gol. Bruno Conti, leggero come un vento marino, dribblava ricamando alle difese la firma del talento puro. Agostino Di Bartolomei, il Capitano, era l’eleganza severa, l’uomo che dava ordine all’universo giallorosso.

Tre artefici di quell’indimenticabile scudetto. Da sinistra: il presidente Dino Viola, Paulo Roberto Falcão e Nils Liedholm

Attorno a loro, una serie di personaggi che sarebbero rimasti nella memoria romanista come figure di un affresco: Carlo Ancelotti, cervello pulito e piedi geometrici; Sebino Nela, instancabile e feroce; Pietro Vierchowod, roccia pura nel cuore della difesa; Franco Tancredi, che tra i pali sembrava moltiplicare le mani. Accanto, Giuseppe Giannini che iniziava a sbocciare, Ubaldo Righetti che correva come un ragazzo innamorato, e Odoacre Chierico, uno di quelli che sanno entrare nella storia anche attraverso i dettagli.

La Roma giocava un calcio che non travolgeva, ma convinceva. Ogni azione aveva un fondo di geometria; ogni partita sembrava costruita con una saggezza antica. E intanto la città osservava, sognava, e cominciava a vibrare. Il lunedì, per strada, si parlava della squadra come si farebbe per un gruppo di amici di lunga data: con affetto, con orgoglio, con quel tono romano che mescola ironia e fede.

La Roma festeggiò allo stadio “Olimpico” il suo secondo scudetto il 15 maggio 1983

Poi arrivò il 15 maggio 1983. La Capitale esplose in un urlo che sembrava liberare decenni di attese. I balconi fiorirono di bandiere, i clacson suonavano come campane, le strade si trasformarono in un mare giallorosso. La Roma era campione d’Italia. E questa volta non era soltanto una squadra ad aver vinto: era una città intera che si era riconosciuta nei suoi interpreti.

Liedholm sorrideva, come un maestro che assiste al capolavoro dei suoi allievi. Falcão sembrava quasi fluttuare nella gioia della gente. E Pruzzo, Conti, Di Bartolomei, Ancelotti, Tancredi, Nela, Vierchowod e tutti gli altri vennero avvolti dall’abbraccio di Roma come figli tornati a casa da una lunga battaglia.

Perché lo scudetto del 1983 non fu soltanto un trofeo: fu un’emozione che ridiede voce a una città intera. Una melodia che ancora oggi, quando il vento scende dall’Appia o risale da Campo de’ Fiori, sembra di poter sentire: la lira d’oro della Capitale.

Mario Bocchio

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