
Piazza Fontana, un ragazzo e il calcio che scelse di guardare altrove
Milano, venerdì 12 dicembre 1969. Alle 16,37 un’esplosione devasta la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana. Diciassette morti, decine di feriti. È l’inizio di una lunga stagione di paura che entrerà nella storia come “strategia della tensione”, un periodo segnato da terrorismo, depistaggi e verità mai del tutto chiarite.
Dentro quella tragedia collettiva si muove anche una storia minuscola e potentissima. Ha il volto di Enrico Pizzamiglio, dodici anni, una vita che ruota attorno a un pallone. Nei campetti di Milano è considerato un talento precoce, uno di quelli che gli adulti osservano con curiosità. La sua squadra del cuore è l’Inter, anche se i fasti della Grande Inter stanno già scolorendo.

Quel pomeriggio Enrico non dovrebbe trovarsi in centro. Avrebbe un appuntamento con gli amici e una partitella improvvisata. Invece accompagna la sorella Patrizia, quindicenne, in banca per sbrigare alcune commissioni per i genitori. Sono in fila, aspettano il loro turno. Poi il boato.


Dentro quella tragedia collettiva si muove anche una storia minuscola e potentissima. Ha il volto di Enrico Pizzamiglio
Patrizia viene ferita ma si salva. Enrico è colpito in modo gravissimo. Trasportato al Policlinico, viene operato d’urgenza: per tenerlo in vita i medici devono amputargli la gamba sinistra. Il ragazzo sopravvive, ma il suo futuro calcistico finisce prima ancora di poter cominciare.
La sua vicenda arriva sulle pagine dei quotidiani grazie al racconto degli amici. Al Corriere della Sera spiegano che Enrico sogna di diventare un calciatore e che il suo idolo assoluto è Sandro Mazzola. L’articolo esce domenica 15 dicembre, lo stesso giorno in cui a San Siro è in programma Inter-Bari.

Il calcio italiano, davanti alla strage, non si ferma. Nessuna sospensione del campionato, nessun segnale forte: soltanto un minuto di silenzio. La partita non si gioca solo perché una nebbia fitta avvolge Milano e rende impossibile scendere in campo. Il rinvio è tecnico, non morale.

In panchina l’Inter è affidata a Heriberto Herrera, uomo rigido, distante anni luce dal carisma del suo predecessore Helenio. Nonostante il clima cupo in città, Herrera ordina alla squadra di tornare ad allenarsi ad Appiano Gentile in vista del recupero del lunedì.
A spezzare quella normalità forzata sono due simboli nerazzurri: Sandro Mazzola e Giacinto Facchetti. Colpiti dalla storia letta sui giornali, chiedono e ottengono il permesso di recarsi al Policlinico per incontrare Enrico.
La visita è silenziosa, quasi irreale. Il ragazzo è immobilizzato a letto e non sa ancora di aver perso una gamba. Riconosce appena i due campioni, ne pronuncia i nomi senza entusiasmo. Mazzola e Facchetti non cercano frasi di circostanza: abbracciano la nonna di Enrico e piangono con lei, condividendo un dolore che va oltre il calcio.

È uno dei rari momenti in cui il pallone italiano incrocia davvero la tragedia di piazza Fontana. Poi tutto riparte: le partite vengono recuperate, i campionati proseguono, l’attenzione si sposta altrove.
La storia di Enrico Pizzamiglio resta come una nota a margine di quella giornata, ma racconta molto più di quanto sembri. Parla di un sogno spezzato e di uno sport che, anche davanti all’orrore, scelse di non fermarsi. Perché lo spettacolo, ancora una volta, doveva andare avanti.
Mario Bocchio
