
C’erano una volta degli italiani, sbarcati in Venezuela in cerca di lavoro e futuro, che invece di dimenticare il passato decisero di portarselo dietro, cucito addosso come una maglia azzurra. Non è una favola, ma la storia del Deportivo Italia, la squadra che per oltre mezzo secolo ha rappresentato la comunità italiana in Sud America. Un club che non fu solo calcio, ma identità, orgoglio, simbolo.

La squadra nacque nel 1948, fondata da un gruppo di emigrati italiani, molti dei quali provenienti dal Nord Italia, dalla Liguria al Piemonte, e poi anche dal Sud, in particolare dalla Campania. Era un modo per ritrovare sé stessi, per sentirsi a casa in un continente nuovo. Il calcio, ancora una volta, diveniva lingua comune. Nei primi anni, il club si muoveva tra i tornei cittadini e regionali, crescendo in popolarità all’interno della capitale Caracas, dove la colonia italiana si era fortemente radicata.
La svolta arrivò nel 1958, con l’arrivo alla guida del club dei fratelli Pompeo e Mino D’Ambrosio, campani di origine ma venezuelani d’adozione. Pompeo, banchiere e imprenditore, portò stabilità economica; Mino, appassionato di calcio, mise in moto un progetto tecnico ambizioso. Da quel momento, il Deportivo Italia non fu più solo una squadra etnica, ma uno dei club più forti dell’intero paese.

Tra gli anni ’60 e i primi anni ’70, la squadra fu protagonista assoluta: quattro campionati venezuelani vinti (1961, 1963, 1966, 1972), tre Coppe del Venezuela (1961, 1962, 1970) e sei partecipazioni alla Copa Libertadores. Ogni anno, almeno un trofeo o un secondo posto. Il Deportivo Italia era una macchina organizzata, seria, professionale in un’epoca in cui il calcio venezuelano cercava ancora la sua forma.

Il 3 marzo 1971 arrivò il momento che trasformò il Deportivo Italia in leggenda continentale: allo stadio Maracanã di Rio de Janeiro, per la Copa Libertadores, gli azzurri venezuelani batterono per 1-0 la Fluminense di Mário Zagallo, una delle squadre più forti del Brasile. Fu un’impresa epica, ribattezzata dalla stampa il “pequeño Maracanazo”, in memoria della celebre sconfitta brasiliana contro l’Uruguay nel 1950. Una squadra venezuelana, composta in gran parte da giocatori sudamericani ma animata da una direzione tutta italiana, riuscì a zittire gli il Maracanã.

Dopo il 6-0 di Caracas, tutti si aspettavano una goleada facile, e la stampa brasiliana non faceva nulla per nasconderlo: la Fluminense, armata fino ai denti con stelle come Marco Antônio, Lula, Flavio Minuano e l’imprendibile Cafuringa, sembrava destinata a travolgere nuovamente il modesto Deportivo Italia. Ma il tecnico venezuelano Elmo Correa aveva altri piani: difesa a oltranza, marcature asfissianti e contropiede solo se necessario.
Il piano funziona. Al 71’, dopo un’ora di sacrificio, Militello scappa in profondità, viene abbattuto in area dal portiere Vitorio: rigore. Manuel Tenorio trasforma con freddezza. Maracanã ammutolito: 0-1.

Ma il peggio sembra arrivare adesso. Carlos “Chiquichagua” Marín teme la reazione furiosa dei brasiliani e si prepara al peggio. Invece, tra i pali c’è un eroe: Vito Fassano. Barese di nascita, cresciuto in Argentina, portiere coriaceo e determinato, sbarra ogni spiraglio. Nonostante i problemi fisici, sfodera una prestazione da leggenda, parando tutto.
Grazie a lui, il Deportivo Italia resiste fino al triplice fischio. È la prima vittoria venezuelana al Maracanã, e a completare la favola, arriva il premio inatteso: il presidente del Palmeiras, favorito dall’impresa degli azules, regala a ciascun giocatore 250 bolívares per la “collaborazione”.
“Sembrava impossibile, ma è successo davvero”, scrive la stampa il giorno dopo. Il piccolo Deportivo Italia è entrato nella storia.
Ma il Deportivo Italia era molto più di una squadra vincente. La domenica, gli spalti si riempivano di famiglie italo-venezuelane: bandiere tricolori, cori in dialetto, pane e mortadella sugli spalti. Era una festa della memoria e dell’identità, un modo per sentirsi parte di una storia comune. Giocare nel Deportivo significava portare sulle spalle un’eredità culturale, e per molti tifosi era come indossare la maglia della Nazionale.

La squadra fu anche un laboratorio sportivo e sociale: sotto i D’Ambrosio passarono grandi tecnici italiani, giocatori sudamericani naturalizzati e dirigenti cresciuti nella scuola del rigore e della passione.
Alla fine degli anni ’70, l’uscita di scena dei fratelli D’Ambrosio segnò l’inizio del declino. Il club cominciò a perdere pezzi, tra problemi economici e cambi di proprietà. Cambiò anche il nome: Deportivo Chacao, poi Italchacao (con cui vinse il campionato nel 1999), infine Deportivo Petare nel 2010. Una trasformazione che, pur legittima sotto il profilo sportivo, spezzò il legame con la comunità italiana. I tifosi storici si sentirono traditi, orfani. La maglia azzurra, la bandiera italiana sulle tribune, l’inno cantato a squarciagola: tutto finì nei cassetti della nostalgia.

Oggi, il Deportivo Italia non esiste più come entità sportiva autonoma. Ma esiste nella memoria, nei racconti, nei nomi dei vecchi giocatori, nelle fotografie ingiallite e nei documentari. Esiste nei figli e nei nipoti degli emigrati, che magari non parlano più italiano ma sanno bene cosa significava quella squadra per i loro nonni.
In un Venezuela attraversato da crisi politiche e sociali, il mito del Deportivo Italia resta una delle più belle storie sportive del Novecento latinoamericano, testimonianza di cosa può nascere quando l’identità si trasforma in progetto, quando l’amore per la propria cultura si intreccia con il desiderio di costruire qualcosa in terra straniera.

Il Deportivo Italia fu tutto questo: un pezzo d’Italia a Caracas, un ponte tra due mondi, un sogno collettivo realizzato su un campo di calcio. E anche se oggi non scende più in campo, continua a giocare nella memoria di chi, guardando una maglia azzurra, sente ancora l’eco di una voce italiana che grida “Forza Italia!” sotto il cielo del Venezuela.
Mario Bocchio