
Ci sono squadre che vincono, squadre che durano, squadre che si tramandano di padre in figlio. E poi ci sono squadre che sognano per tutti. La Pistoiese del 1980-’81, affettuosamente ribattezzata “l’Olandesina”, fu proprio questo: un sogno arancione che s’infilò tra le pieghe del calcio italiano per un solo anno, come una meteora gentile. Ma che anno. Un viaggio irripetibile dalla provincia alla Serie A, guidato da uomini semplici e idee coraggiose, suggellato da una vittoria che oggi sembra leggenda: il derby vinto contro la Fiorentina all’allora Comunale, oggi Franchi.

Pistoia non è una città che chiede troppo. Schiva, laboriosa, con il cuore nel campanile e i piedi ben piantati nella storia. Quando la squadra arancione conquistò la promozione in Serie A nel 1980, fu un terremoto silenzioso. Nessuno l’aveva previsto davvero. La squadra, allenata da un tecnico metodico e visionario come Enzo Riccomini, si era costruita senza clamore: giocatori solidi, idee chiare, spogliatoio compatto.
Fu la prima e unica promozione in Serie A nella storia della Pistoiese. Una scalata lenta, ma verticale. Riccomini, toscano di Piombino, ex calciatore affermatosi soprattutto ad Empoli , aveva capito che per restare a galla non bastava difendersi. Serviva coraggio, ritmo, palleggio. Serviva un’idea diversa. Fu così che nacque l’Olandesina.

Il nome lo coniarono i giornalisti con un sorriso. Arancione come l’Olanda di Cruijff, la Pistoiese di Riccomini tentava di giocare a calcio come i grandi. Pochi lanci, tanto fraseggio, terzini alti, regista basso e mentalità propositiva. Una rarità nel calcio italiano del tempo, dove il “libero” e il contropiede dominavano ancora.
In campo c’erano uomini d’esperienza e giovani di prospettiva. Marcello Lippi in difesa, ancora lontano dalle panchine e dai trofei futuri. Il centrocampista Mario Frustalupi, regista di classe e cervello del gruppo, ex Cagliari e Inter, era l’anima pensante. In attacco, nomi noti e meno noti ma generosi: Nello Saltutti e Livio Luppi . E poi i gregari, gli equilibratori, gli invisibili che fanno la differenza.

Nella rosa della A figuravano giocatori del calibro di Sergio Borgo, il capitano, Mauro Bellugi, Paolo Benedetti, Andrea Agostinelli, Roberto Badiani, Vito Chimenti e Giorgio Rognoni.
Il momento più alto arrivò in autunno, nella partita più attesa. Fiorentina-Pistoiese, 18 gennaio 1981. Firenze non prendeva troppo sul serio i cugini pistoiesi. Ma la squadra del presidente Marcello Melani arrivò a Campo di Marte con lo spirito delle grandi occasioni. Giocò da provinciale, sì, ma con l’orgoglio di chi vuole essere ascoltato.

Risultato: 2-1 per la Pistoiese. Un’impresa che gelò lo stadio. Marcature di Rognoni e Badiani, con la Fiorentina tramortita. Un successo che andò oltre i punti in classifica: fu uno scatto d’identità, la prova che anche una piccola città murata poteva far rumore in Serie A.
Ma il sogno durò poco. Il campionato 1980-’81 fu spietato. La Pistoiese chiuse all’ultimo posto con 16 punti. Nonostante l’impegno, la coesione e l’innovazione tattica, la squadra pagò il salto di categoria, l’inesperienza, e una rosa troppo corta per reggere l’urto con la Juventus di Trapattoni, la Roma di Falcão, l’Inter campione d’Italia uscente.
Eppure, nessuno parla di fallimento. Perché quell’annata fu un’eccezione preziosa nel calcio italiano: una piccola squadra che osava essere sé stessa, che non tradì i propri principi nemmeno di fronte alla condanna.
Oggi, nello stadio Marcello Melani, tra le gradinate silenziose e le scritte scolorite, si avverte ancora il ricordo di quell’anno. I più anziani lo raccontano ai nipoti come una favola sportiva. I nomi di Frustalupi, Lippi, Riccomini si sussurrano come reliquie di un tempo perduto. C’è chi conserva ancora il biglietto di quel derby, chi custodisce la maglia arancione con la stessa cura riservata a un cimelio di famiglia.
La Pistoiese 1980-’81 fu tutto ciò che il calcio dovrebbe essere almeno una volta nella vita: romanticismo, sfida, appartenenza, bellezza effimera. In un’epoca in cui il calcio è sempre più business, la storia dell’Olandesina resta una lezione di identità. Non serve vincere per restare nella memoria collettiva: a volte basta resistere con stile.
Mario Bocchio