
Quando, all’ultimo minuto dei tempi regolamentari della finale del Mondiale 1978, Rob Rensenbrink colpì il palo, un brivido gelò l’intera Argentina. Lo stadio Monumental di Buenos Aires trattenne il fiato: settantamila spettatori immobili, i generali della giunta militare irrigiditi in tribuna d’onore, milioni di telespettatori incollati allo schermo. Persino i prigionieri politici, rinchiusi a poche centinaia di metri dallo stadio, sospesero per un attimo l’angoscia del presente per abbandonarsi all’attesa di un pallone che avrebbe potuto cambiare tutto.
Quel legno colpito dall’attaccante olandese fu più di un’occasione mancata: fu lo spartiacque tra una possibile consacrazione per l’Olanda del calcio totale e il primo trionfo mondiale dell’Argentina. Quel palo spalancò le porte alla leggenda di Mario Alberto Kempes, che di lì a poco avrebbe trascinato l’Albiceleste alla gloria eterna. Il Matador, come lo chiamavano, diventò il simbolo puro e irripetibile di quel Mondiale, l’uomo che seppe fondere talento, sacrificio e senso di appartenenza in un’unica figura.

Eppure, l’inizio del torneo per Kempes non fu dei più brillanti. Tornato in patria dopo aver conquistato la Spagna con caterve di gol nel Valencia – due volte capocannoniere della Liga – era atteso come l’eroe predestinato. Ma nelle prime partite sembrava smarrito: nessuna rete, movimenti faticosi, una pressione che lo schiacciava. A tenere a galla l’Argentina ci pensarono Luque e Bertoni, decisivi contro Ungheria e Francia, in un girone iniziale che si chiuse con una sconfitta proprio contro l’Italia di Bearzot.
Fu allora che César Luis Menotti, “El Flaco”, il Ct-filosofo, capì che serviva una scossa. Durante il trasferimento verso Rosario per affrontare la Polonia, notò l’aria cupa del suo attaccante, quasi in ombra dietro quei baffi che non gli donavano. Gli si avvicinò e con tono scaramantico e paterno gli disse: “Con quei baffi non ti ho mai visto segnare. Perché non li tagli?”. Kempes sorrise, obbedì. Il giorno dopo, segnò due gol ai polacchi. Era tornato El Matador.
Da quel momento, fu un crescendo. Un’altra doppietta, decisiva e discussa, nel roboante 6-0 al Perù, che garantì all’Argentina l’accesso alla finale. E poi, l’epica del 25 giugno: Monumental pieno, Olanda in campo, tensione alle stelle. Kempes sbloccò la partita con una progressione potente, segno della sua natura atipica: non un centravanti classico, ma un attaccante totale, capace di partire dalla trequarti, creare gioco, imporsi con il fisico e l’istinto.


Mario Alberto Kempes in versione con i baffi al Mundial del 1978 (a sinistra) e con la maglia del Valencia

Nel primo tempo supplementare, dopo il momentaneo pareggio olandese, arrivò l’apice della sua carriera: azione personale, dribbling, tiro, respinta del portiere e poi la ribattuta vincente. Il 2-1 che cambiò la storia. Il 3-1 finale, siglato da Bertoni, fu il suggello alla vittoria, ma il volto che restò impresso nella memoria collettiva fu quello di Mario Alberto Kempes, braccia alzate, volto acceso di gioia, sguardo verso il cielo.
Kempes non fu soltanto il capocannoniere di quel Mondiale, con sei gol, ma il suo vero protagonista. Un simbolo di un calcio argentino in cerca di riscatto, di un popolo che, seppure sfruttato dalla propaganda del regime, si aggrappò alla Nazionale per ritrovare orgoglio e dignità. “Non giochiamo per gli ufficiali, giochiamo per la gente”, aveva detto Menotti. E così fecero.
Il Matador fu molto più di un eroe sportivo. La sua chioma lunga e ribelle, i movimenti eleganti e potenti, quel nome completo – Mario Alberto – pronunciato con enfasi dai cronisti, gli conferivano una dimensione da personaggio letterario, quasi salgariano. Era l’eroe romantico, timido e riservato, ma letale sul campo.
Dopo quel trionfo, Kempes continuò a brillare: vinse con il Valencia la Coppa di Spagna, la Coppa delle Coppe e la Supercoppa Uefa. Ma nessun trofeo superò l’intensità emotiva di quella notte di Buenos Aires. In patria, fu il Dieci prima di Maradona e Messi. L’anima del calcio argentino, il volto buono di un Paese tormentato.
Parlare di Kempes oggi è rievocare un’Argentina in bianco e nero che cercava luce, un calcio fatto di passione, sacrificio e orgoglio. È ricordare un uomo che, con la sua doppietta nella finale del 1978, scrisse una delle pagine più belle della storia del fútbol. E regalò a un popolo, seppur per una notte, la felicità di sentirsi invincibile.
Mario Bocchio