Ercole Rabitti, il maestro silenzioso del calcio italiano
Giu 3, 2025

C’è stato un tempo in cui il calcio italiano si costruiva nei cortili, tra le impalcature dei cantieri e le ombre dei capannoni. Un tempo in cui gli allenatori non erano guru, ma maestri artigiani. Tra questi, uno dei più autentici e discreti fu Ercole Rabitti, torinese di nascita e di spirito, scomparso nel maggio del 2009 con la stessa eleganza lieve con cui aveva vissuto tutto: in punta di piedi.

Rabitti non fu un campione da copertina, né un allenatore da urla e lavagne. Ma fu qualcosa di più raro: un educatore del pallone, un artigiano dell’anima calcistica, uno che nella fatica quotidiana dei campi d’allenamento sapeva leggere i ragazzi e restituire loro fiducia, ordine, dignità.

Alcune immagini della carriera di Rabitti come calciatore. Da sinistra: nella Juventus, nel Como e nel Fanfulla

Centravanti della Juventus negli anni di guerra, esordì con un gol. Sembrava l’inizio di una parabola luminosa, e invece fu l’inizio di un lungo pellegrinaggio: Casale, Cuneo, Spezia, Viareggio, Como, Fanfulla. Cecina, Anconitana, Asti… nomi che oggi suonano romantici, allora erano solo tappe di sopravvivenza in un calcio che non garantiva certezze. Ma Rabitti non si perse mai. Con la calma dei forti e dei pazienti, imparava ovunque passasse.

Era un uomo curioso del gioco. Più che il gol, lo interessava capire cosa muovesse una squadra, quale parola facesse accendere un giovane, quale errore andasse corretto con dolcezza e quale con severità. Fu così naturale, al termine della carriera da giocatore, vederlo restare nei campi. Allenava come chi continua una conversazione iniziata da ragazzo.

Prima con la Juventus, dove prese in mano le giovanili e, nel 1964, guidò persino la prima squadra in un momento di transizione. Poi, dopo un altro interregno juventino nel 1969-’70 – stagione in cui sfiorò lo scudetto – scelse una nuova sponda: quella granata del Torino, dove sarebbe diventato qualcosa di simile a un custode dell’identità.

Rabitti allenatore del Torino nella stagione 1980-’81, tra i suoi calciatori D’Amico (a sinistra) e van de Korput (a destra)



Fu lì, nel vivaio del Toro, che Rabitti lasciò il segno più profondo. Plasmò generazioni. Vinse un campionato Primavera nel 1976-’77, ma più ancora vinse nella memoria dei ragazzi che allenava. Quando nel 1980 venne chiamato a guidare la prima squadra, in un calcio sempre più frenetico e industriale, lui rispose con il suo stile: testa bassa, lavoro, e un terzo posto che profumava di miracolo.


Erano anni difficili, quelli. Anni di transizione tra un calcio romantico e uno più spietato. Ma Rabitti, con la sua aria da professore di liceo e la voce mai alterata, continuava a essere ascoltato. Emiliano Mondonico, che lo ebbe come punto di riferimento, parlava di lui con gratitudine quasi filiale: “Non ho mai conosciuto uno che capisse così bene i giovani. Non li giudicava: li accoglieva”.

Paolo Pulici, leggenda granata, raccontò anni dopo che Rabitti “sapeva dire con una frase quello che altri non spiegavano in cento allenamenti”. Era un calcio fatto di relazioni più che di numeri. Un calcio che oggi sembra lontanissimo. Ercole Rabitti morì il 28 maggio 2009, a Ferrara, nella quiete. Non ci furono titoloni, né speciali in prima serata. Solo qualche trafiletto e il ricordo commosso di chi lo aveva incrociato. Ma in tanti, nel mondo del calcio, si fermarono un istante. Perché in fondo, senza fare rumore, Rabitti aveva insegnato il mestiere di stare al mondo.

Nel tempo dei riflettori, lui aveva scelto l’ombra fertile. E in quell’ombra aveva cresciuto uomini.

Mario Bocchio

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