
Sono passati quarant’anni. Quarant’anni da quel 29 maggio 1985, quando il calcio perse la sua innocenza. Quando uno stadio che avrebbe dovuto essere teatro di gioia si trasformò in una fossa, e la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool si consumò sotto il peso di una tragedia che ha lasciato cicatrici indelebili.

Oggi, in un’Europa che corre veloce, tra schermi ad altissima definizione e partite che sembrano eventi hollywoodiani, il nome Heysel riecheggia come un’eco sommessa, un sussurro di dolore che ancora si aggira tra gli spalti, tra le coscienze, tra le fotografie ingiallite di chi non tornò più a casa.

Era una sera come tante, con l’adrenalina che correva nelle vene dei tifosi, italiani e inglesi, venuti da ogni angolo del continente. Eppure, in quel vecchio stadio belga, l’inadeguatezza delle strutture, la cattiva gestione e la violenza smisurata fecero da anticamera a una catastrofe: 39 morti, centinaia di feriti, e il calcio europeo che piombava nell’abisso.
Quarant’anni dopo, i volti di quelle vittime non sono sbiaditi. Ogni 29 maggio, chi li ha conosciuti – familiari, amici, sopravvissuti – li ricorda con fiori, con preghiere, con silenzi. Ma il mondo del calcio, nel suo turbinio di luci e affari, quanto li ricorda davvero?

Cosa ci rimane dell’Heysel? Ci rimane una lezione. Amara, incancellabile, eppure spesso ignorata. L’Heysel ha mostrato che il calcio può diventare un’arma se perde il suo spirito, se smette di unire per iniziare a dividere. Ha mostrato come l’odio, alimentato da rivalità e miopia istituzionale, possa costare vite.

Eppure, ci rimane anche una forma di redenzione. Dopo l’Heysel, il calcio cambiò. Gli stadi iniziarono a diventare più sicuri, le tifoserie lentamente più consapevoli, le federazioni più attente. Non è bastato, certo. Ma qualcosa si è mosso.
Ci rimane il monito, scolpito nella memoria di chi ha visto, di chi ha perso, di chi ha giurato di non dimenticare.

I ragazzi dell’Heysel. Erano ragazzi, molti di loro. Ragazzi che amavano il calcio, che avevano risparmiato per un biglietto, che sognavano Platini e finirono sotto un muro di cemento e panico. A loro non è bastata una finale. A loro è toccata la morte nel cuore della festa.
E oggi, quando scorrono le immagini di quella notte, granose e tremolanti, ci si sente piccoli, impotenti. Perché si capisce che l’Heysel non è solo una tragedia del passato, ma una responsabilità del presente.
Quarant’anni dopo, l’Heysel è una ferita ancora aperta. Una memoria che va coltivata, non solo commemorata. Ogni volta che una bandiera viene sventolata con odio, ogni volta che uno stadio diventa teatro di violenza, l’ombra dell’Heysel si allunga.
Mario Bocchio