Il Catanzaro degli anni Ottanta: quando il Sud sognò in grande
Mag 5, 2025

C’erano una volta undici leoni in maglia giallorossa. Non erano famosi, non avevano sponsor milionari sul petto né procuratori in giacca e cravatta. Non arrivavano da metropoli industriali, ma da una città arroccata tra il mare e l’altopiano, dove il vento portava il profumo del sale e quello della terra bruciata dal sole. Era il Catanzaro degli anni Ottanta, la “matricola terribile” che osava sfidare i colossi del calcio italiano.

Non era una favola. Era tutto vero. Bastava salire la collina del quartiere Sala e infilarsi nel catino infuocato del “Militare”, oggi stadio Ceravolo. Lì, la domenica, non si giocava solo a calcio: si combatteva per un’identità, per un riscatto. E spesso, contro ogni pronostico, vincevano loro.

Una formazione del Catanzaro nella stagione 1980-’81

Per raccontare il Catanzaro di quegli anni, bisogna dimenticare per un attimo le logiche moderne del pallone. Il calcio, allora, era un’altra cosa: le partite si ascoltavano alla radio con il cuore in gola, le maglie erano di cotone pesante e i campioni si riconoscevano per l’anima, non per il prezzo del cartellino.

In quella squadra non c’era spazio per le star, ma c’era tutto ciò che serviva per scrivere una leggenda. In panchina, un giovane allenatore romano che avrebbe fatto strada: Carlo Mazzone. Uomo schietto, sanguigno, padre e sergente. In campo, il genio fragile e irripetibile di Massimo Palanca, il sinistro più magico del calcio italiano, capace di segnare da calcio d’angolo con una naturalezza disarmante. In difesa, la solidità di Claudio Ranieri, allora ben lontano dai riflettori internazionali che lo avrebbero consacrato decenni dopo.

Catanzaro non era solo una squadra: era l’emblema di un Sud che non voleva più limitarsi a sopravvivere nel calcio, ma pretendeva di contare. E ci riuscì.

Massimo Palanca contro la Juventus

La stagione 1981-‘82 fu l’apice di quel sogno. Il Catanzaro, allenato da Bruno Pace, chiuse il campionato al settimo posto in Serie A, davanti a club blasonati e milionari. Ogni domenica, il piccolo club calabrese strappava applausi, punti e rispetto. A Catanzaro arrivavano Juve, Inter, Roma, e andavano via spesso con la coda tra le gambe.

Il catino dello stadio era un’arma in più. Si giocava quasi sempre sotto il sole cocente, e il pubblico cantava, urlava, spingeva. I bambini sulle spalle dei padri, le donne con la sciarpa giallorossa, i vecchi che masticavano tabacco e rabbia per decenni di marginalità. Tutti uniti da una fede, da un senso di appartenenza viscerale.

“Non vincevano sempre”, raccontano i tifosi più anziani, “ma non mollavano mai”.

Se c’è un volto che meglio rappresenta quegli anni è quello di Massimo Palanca, soprannominato “o’ sinistro ‘e Dio” dai tifosi. Basso, magro, con la chioma lunga e un volto più da poeta che da calciatore, Palanca incantava per eleganza e istinto. I suoi calci d’angolo diventavano rigori da cui il portiere non si poteva salvare. Ne segnò 13 in carriera da tiro dalla bandierina: un record. E molti di quei colpi di genio nacquero proprio sotto il cielo di Catanzaro.

Palanca era amato come solo i grandi sognatori lo sono: perché non era infallibile, ma era autentico. Le sue lacrime dopo un gol, i suoi dribbling ubriacanti, le sue punizioni a giro diventavano racconti da bar, leggende da tramandare.

Claudio Ranieri (a sinistra) con l’allenatore Gianni Di Marzio

Dopo anni gloriosi, la magia cominciò ad affievolirsi. I risultati si fecero più incerti, i bilanci più stretti, gli assi lasciarono la Calabria per altri lidi. Nel 1983, arrivò la retrocessione. Dolorosa, inevitabile. L’ultima partita in Serie A fu come l’epilogo di una lunga canzone popolare: malinconica, struggente, ma colma di orgoglio.

Il Catanzaro scese tra i cadetti, e da lì cominciò un lungo pellegrinaggio fatto di salite e discese, sogni infranti, resurrezioni mancate, fino ai giorni nostri. Ma l’eco di quegli anni non si è mai spenta.

Oggi, tra i vicoli di Catanzaro, i vecchi ancora ricordano i tempi in cui la città si fermava per vedere il gol di Palanca alla Juve o la parata impossibile di Zaninelli. I più giovani, che non c’erano, ascoltano le storie come si ascoltano le leggende. E ogni tanto, quando la palla torna a rotolare in Serie B o nei campi polverosi della C, il sogno si riaccende.

Perché quel Catanzaro degli anni Ottanta non fu solo una squadra. Fu un messaggio. Un grido. La dimostrazione che anche da sud, anche da lontano, anche con pochi mezzi, si può arrivare in alto. E restarci con la testa alta.

Furono anni di passione, orgoglio e identità. Anni in cui, almeno per un po’, il cuore del calcio batté forte nella punta dello Stivale. E a Catanzaro, si fece la storia.

Mario Bocchio

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