
Nel calcio moderno, dove i terzini si travestono da ali e le diagonali si misurano con i droni, sembra quasi impossibile immaginare un uomo come Adriano Fedele. Eppure c’è stato un tempo – tra gli anni Settanta e Ottanta – in cui un giocatore come lui era l’essenza stessa del ruolo. Non un semplice difensore, ma un artigiano della marcatura, un asceta della fascia, un gladiatore in scarpette bullonate. Un uomo che se ti prendeva in consegna, potevi solo sperare che suonasse il fischio finale in fretta.
Nato a Udine nel 1947, Fedele è cresciuto a pane e pallone. Figlio del Nordest ruvido e operaio, il calcio lo respirava più che giocarlo. Lo masticava nei campetti di terra battuta e lo portava dentro come si porta il dovere. L’esordio nell’Udinese avvenne da adolescente, con la faccia pulita e le gambe dure. Nessuno in città aveva dubbi: quel ragazzo sarebbe arrivato lontano, ma senza mai perdere l’accento friulano e lo sguardo di chi ha imparato presto che nel calcio, come nella vita, prima si chiude e poi si parla.


La sua carriera è un viaggio tra maglie pesanti e stadi infuocati. Dopo le prime stagioni in Friuli, è il Bologna a notarlo. La chiamata rossoblù arriva nel 1970: sotto le Due Torri c’è aria di ambizione e la difesa ha bisogno di muscoli e cervello. Fedele si inserisce con la naturalezza di chi è abituato a lavorare in silenzio. Accanto a gente del calibro di Bulgarelli e Janich, cresce e si rafforza. In Emilia impara l’arte della pazienza tattica e si tempra nel fuoco delle grandi partite. Con il Bologna, Fedele colleziona 77 presenze e 7 gol in Serie A, formando una coppia difensiva esemplare con Tazio Roversi.
Poi arriva il salto. L’Inter, quella ancora intrisa dello spirito di Helenio Herrera, lo vuole. È il 1973, e a Milano lo accolgono con il consueto scetticismo riservato a chi non ha pedigree blasonati. Ma Fedele, fedele al suo nome, non si lascia intimidire. Con i nerazzurri colleziona 132 presenze e 10 gol in Serie A, vincendo la Coppa Italia nella stagione 1977-‘78. In un calcio dominato da colossi come Facchetti, Bedin e Mazzola, lui fa il suo, senza pretendere i riflettori. L’Inter è una scuola durissima: lì impari a giocare con l’orologio in testa e il fiato sul collo. E Fedele, come sempre, prende appunti col corpo.

Ma è nel Verona che il destino lo aspetta con le pagine migliori. Ci arriva nel 1981, in una squadra che sogna la Serie A e lavora come una provinciale con la bava alla bocca. Con il Verona, Fedele contribuisce alla promozione in Serie A nella stagione 1979-‘80. A Verona, Fedele diventa leggenda. Non segna, non esulta, ma chiude, copre, salva. È la cassaforte della retroguardia. Un esempio per i giovani, un incubo per gli attaccanti.
Il suo stile era antico già allora. Non correva a vuoto: ogni passo era calcolato, ogni intervento misurato. Giocava d’anticipo, sapeva leggere il gioco come un veterano di scacchi. Arcigno, sì. Ma mai violento. Bastava uno sguardo per capire che non era lì per far spettacolo, ma per far rispettare le regole del campo. Un calcio sobrio, onesto, essenziale.
Dopo 221 presenze e 17 gol in Serie A, Fedele chiude la carriera professionistica nel Pordenone in Serie C2 nel 1983-‘85, per poi giocare ancora nei dilettanti del Pro Gorizia.
Oggi, quando si parla di terzini veri, di quelli che ti entrano nel fiato e ti lasciano senza opzioni, il nome di Adriano Fedele torna sussurrato tra nostalgici e allenatori d’altri tempi. Perché in un calcio ultramoderno e tecnologico, lui resta il simbolo di un’epoca in cui bastavano due parole per capire tutto: “il mio uomo”. E quello, Fedele, non lo mollava mai.
Mario Bocchio