

Le campane della chiesa suonano lente, come se volessero accompagnare con rispetto e gratitudine l’ultimo viaggio terreno di Umberto Domenghini. In molti hanno camminato in silenzio fino alla chiesa con sciarpe bianconere strette tra le mani. Non erano solo tifosi del Derthona. Erano uomini e donne che avevano conosciuto Umberto, non solo come portiere, ma come simbolo di lealtà, sacrificio e amore puro per il calcio.
Umberto nasce nel 1948 a Lallio, in provincia di Bergamo. Figlio di una famiglia semplice, cresce all’ombra – e al sole brillante – del fratello maggiore, Angelo Domenghini, l’ala destra che avrebbe incantato il mondo negli anni ’60 con la maglia dell’Inter di Herrera e della Nazionale. Poi anche con quella del Cagliari dello storico Scudetto. Ma Umberto non fu mai geloso. Anzi. “Se Angelo è la voce solista, io sarò il contrappunto”, diceva sorridendo, con la saggezza di chi sa che nella musica, come nel calcio, ogni nota conta.
Portiere per vocazione, Umberto aveva riflessi felini e un cuore calmo. Non era appariscente. Non faceva voli teatrali se non necessari. Ma quando serviva, c’era. Sempre. Il suo stile sobrio gli valse il soprannome di “il portiere filosofo”. Silenzioso, composto, attento. Ma con uno sguardo che raccontava più di mille parole.
Fu al Derthona che Umberto trovò la sua vera casa sportiva. Arrivò da giovane, quando ancora cercava di capire se avrebbe avuto spazio in un calcio che premiava sempre i nomi più scintillanti. E invece quella piccola città piemontese gli aprì le braccia. E lui, in cambio, diede tutto. Gli anni ’70 videro il Derthona oscillare tra Serie C e D, ma Umberto fu una costante. Con le sue parate, i suoi consigli ai più giovani, e quella calma che rassicurava anche i tifosi più ansiosi.
Non aveva mai bisogno di gridare. Bastava uno sguardo, un cenno con la mano. E la difesa si allineava, come per magia.

Agli inizi degli anni 80, accadde qualcosa che molti oggi ricordano con emozione: il Derthona affidò la panchina proprio ad Angelo Domenghini, il fratello maggiore. Per qualche tempo, Angelo e Umberto condivisero lo spogliatoio non più da fratelli di sangue, ma da mister e giocatore.
Era un paradosso poetico: l’attaccante che aveva fatto sognare allenava il fratello portiere in una piccola squadra di provincia. Eppure, mai una tensione, mai una rivalità. Solo stima reciproca e quella complicità silenziosa che solo i fratelli veri sanno costruire. Si racconta che Angelo, pur essendo un allenatore severo, non abbia mai risparmiato una parola di lode per Umberto. “Lui para le cose che io non avrei mai visto nemmeno arrivare” disse una volta davanti alla squadra. “E ha il coraggio di farlo in silenzio”.

Umberto, fuori dal campo, era un uomo discreto. Lavorava, aiutava gli amici, partecipava alla vita della comunità. Era il tipo che si fermava a parlare con gli anziani in piazza, che dava passaggi ai ragazzi dopo gli allenamenti, che veniva a vedere le partite della squadra anche quando ormai aveva appeso i guanti al chiodo.
Non cercò mai gloria. Non scrisse libri. Non andò in Tv. Nonostante avesse un fratello famoso, preferiva restare tra la gente semplice, tra quelli che sapevano ancora distinguere l’apparenza dalla sostanza.
Umberto Domenghini è stato un uomo che non ha mai smesso di credere nella bellezza del calcio autentico, quello fatto di fango, sudore, strette di mano e sogni piccoli ma veri.
Mario Bocchio