
In un secolo in cui il calcio europeo si divideva tra le magie del Sudamerica e il rigore tattico del continente, un uomo riuscì a fondere entrambi gli elementi con la classe di un fuoriclasse e l’intelligenza di un accademico. György Sárosi, nato a Budapest nel 1912, fu uno dei calciatori più completi della sua epoca. Un attaccante che ragionava come un regista, un centrocampista che finalizzava come un bomber. E dopo una carriera brillante in patria, la sua avventura continuò in panchina, attraversando i confini ungheresi e arrivando fino in Italia, dove – dal 1951- al ‘53 – fu anche allenatore della Juventus.



György Sárosi ai tempi del Ferencváros
György Sárosi (conosciuto anche come Gyurka) mosse i primi passi nel calcio ungherese durante gli anni ’20, quando il suo Paese era uno dei più fertili laboratori calcistici al mondo. L’Ungheria dell’epoca, insieme ad Austria e Cecoslovacchia, faceva parte della cosiddetta “scuola danubiana”, che privilegiava il gioco tecnico, la palla a terra, la costruzione ragionata. In un’epoca in cui la forza fisica predominava, Sárosi sembrava un artista: elegante, pensante, raffinato.

Fece tutta la sua carriera da calciatore nel Ferencváros, club storico di Budapest, con cui giocò dal 1930 al 1948. In diciotto stagioni collezionò 383 presenze e 351 reti, numeri straordinari che lo resero una leggenda del club. Vinse cinque campionati ungheresi, cinque Coppe d’Ungheria e fu protagonista nella Coppa dell’Europa Centrale, un’antenata della Coppa dei Campioni, che il Ferencváros vinse nel 1937 battendo la Lazio in finale.

Oltre al talento, Sárosi aveva anche un cervello fuori dal comune: era laureato in giurisprudenza, e per questo in patria veniva soprannominato “il Dottore”. Ma quel soprannome diceva anche altro: parlava della sua capacità di leggere il gioco, di adattarsi a qualsiasi ruolo, di risolvere i problemi in campo come un professore con gesso e lavagna.

Il punto più alto della carriera internazionale di Sárosi arrivò ai Mondiali di Francia del 1938. Con la maglia dell’Ungheria, trascinò la sua nazionale fino alla finale, segnando cinque reti nel torneo. Gli ungheresi, con Sárosi e Zsengellér in attacco, impressionarono per qualità e organizzazione. In semifinale superarono la Svezia per 5-1 (Sárosi segnò due gol), prima di arrendersi in finale all’Italia di Vittorio Pozzo per 4-2.

In quella partita Sárosi segnò una delle due reti magiare e uscì comunque a testa alta. Le sue prestazioni gli valsero il riconoscimento unanime come uno dei migliori calciatori del mondo. Non a caso, molti storici del calcio lo inseriscono tra i precursori del “falso nueve”, per la sua capacità di abbassarsi a centrocampo a orchestrare il gioco.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale e il ritiro dal calcio giocato (1948), Sárosi si dedicò all’allenamento. Cominciò ad allenare, approdò in Italia, dove fu chiamato dal Bari e dalla Lucchese, affascinati dal suo bagaglio tecnico e tattico.
Nel 1951, la Juventus decise di affidargli la panchina. Il club bianconero era reduce da anni turbolenti, e la dirigenza cercava una figura in grado di riportare ordine, disciplina, ma anche una nuova idea di gioco. Sárosi fu visto come un innovatore: parlava di “spazio”, di “movimenti senza palla”, di “transizioni”, concetti che nel calcio italiano dell’epoca erano ancora acerbi.
Sulla panchina bianconera rimase sino al 1953, ma lasciò un’impronta importante, uno Scudetto e un secondo posto. Sárosi cercò di dare un’identità più fluida al gioco, puntando su una manovra meno verticale e più costruita. Lavorò anche sulla formazione tattica di giovani calciatori, contribuendo alla crescita del club negli anni successivi. Poi Genoa, Roma, Bologna e Brescia prima di andare in Svizzera al Lugano.



Gyurka in Italia alla guida di Juventus, Genoa e Roma
Sárosi non fu solo un allenatore o un ex calciatore: fu un pensatore del calcio. Parlava più lingue, leggeva molto, e vedeva il calcio come un sistema in continua evoluzione, non come un semplice sport. Preferiva il lavoro in campo a quello mediatico, e per questo il suo nome oggi non viene citato con la stessa frequenza di altri suoi contemporanei. Eppure, chi ha avuto modo di vederlo giocare – o di lavorare con lui – racconta di una personalità magnetica e colta, capace di incantare con una visione o con una spiegazione tattica. Dopo il ritiro definitivo dal calcio, si stabilì a Bologna, dove visse fino alla sua morte, nel 1993.
György Sárosi è una figura che il tempo ha parzialmente nascosto, ma che merita di essere riscoperta e celebrata. La sua carriera rappresenta una sintesi perfetta tra il calcio come arte e il calcio come scienza. È stato un precursore dei centrocampisti moderni, un attaccante totale, e un allenatore che ha cercato di insegnare il calcio non solo con la tattica, ma con la logica, l’intuito e la cultura.
Alla Juventus non vinse trofei, ma contribuì a introdurre un modo diverso di pensare il gioco, lasciando il segno su una generazione intera di tecnici e giocatori italiani. Un “maestro silenzioso” che oggi, a più di 30 anni dalla sua scomparsa, merita un posto d’onore nella storia del calcio europeo.
Mario Bocchio