
Nel panorama spesso grigio e conservatore del calcio italiano tra gli anni ’80 e i primi 2000, una figura è emersa come un fulmine a ciel sereno: Giovanni Galeone, l’allenatore filosofo, l’esteta della palla, il rivoluzionario gentile che ha osato sfidare il dogma del “prima non prenderle” con un’idea di calcio offensiva, libera, e per certi versi quasi anarchica.
Mentre l’Italia calcistica si aggrappava alla zona mista e al pragmatismo, Galeone proponeva un’altra via: un 4-3-3 spavaldo, fatto di pressing alto, rotazioni di centrocampo, palleggio tecnico e spirito d’attacco. Un gioco che esaltava l’individualità dentro un sistema fluido, creativo, pensato per dominare, non per contenere.

La parabola galeoniana trova il suo epicentro nella Pescara degli anni ’80, dove il tecnico partenopeo costruì un autentico laboratorio di innovazione tattica. Arrivato in Abruzzo nel 1986, Galeone prese in mano una squadra da Serie B senza pretese e la trasformò in un gioiello tecnico che, nel 1987, conquistò la promozione in Serie A con un gioco spettacolare e spregiudicato.
In quell’annata storica, il Pescara segnò 58 gol – un’enormità per i canoni difensivisti dell’epoca – e mostrò un calcio propositivo che ricordava, per qualità e visione, le grandi scuole europee, più vicine al modello olandese di Michels o al primo Sacchi che ai tatticismi italiani.

Il Galeone pensiero era chiaro: “Il calcio è gioia, non solo risultato. Bisogna correre per attaccare, non per rincorrere”. Un mantra che lo ha accompagnato per tutta la carriera e che ha ispirato generazioni di calciatori e allenatori, spesso più affascinati dalla sua filosofia che dai suoi risultati, comunque significativi.
Ma il calcio di Galeone non era solo schema e movimento. Era soprattutto rapporti umani, empatia, libertà espressiva. I suoi giocatori lo ricordano come un motivatore capace di entrare nella testa e nel cuore, un allenatore che sapeva responsabilizzare senza ingabbiare.
Tra i suoi “discepoli” più noti c’è Massimiliano Allegri, che con lui ha giocato a Pescara e che non perde occasione per ricordare l’influenza galeoniana nel suo percorso: “Con Galeone ho capito che il calcio non è solo teoria. È intuizione, fiducia, gestione emotiva. È saper leggere gli uomini prima ancora delle partite”.
Lo stesso Allegri, oggi uno degli allenatori più vincenti d’Italia, ha ereditato quella visione elastica del gioco e del gruppo: niente rigidità, molta psicologia. E non è l’unico. Diversi allenatori usciti dalla scuola Galeone (inclusi Gian Piero Gasperini e altri ex giocatori) hanno portato avanti, a modo loro, l’ideale del “calcio pensato ma non ingabbiato”.
Nonostante il suo genio, Galeone non ha mai allenato un grande club. È rimasto un artigiano del calcio, apprezzato e rispettato, ma tenuto ai margini dai grandi sistemi. Troppo sincero, troppo libero, troppo poco incline ai compromessi.
Le sue esperienze più importanti – oltre a Pescara – si sono svolte a Udine, Como, Perugia, Napoli, Ancona e Spal. Ovunque ha lasciato il segno, non tanto per i trofei (che non sono mai arrivati), quanto per la cultura calcistica che ha trasmesso.

A Napoli, la sua città natale, ebbe un’esperienza breve e difficile nel 1997. I tempi non erano maturi. La squadra era in crisi, il contesto tossico, e il suo calcio non poteva sbocciare. Ma i tifosi più attenti ricordano ancora alcune partite in cui, anche in quel caos, si vedeva un barlume di poesia.
Galeone è stato l’ultimo romantico del pallone, un uomo che vedeva il calcio come un’opera d’arte collettiva. Non lo interessavano i moduli rigidi, i compiti ossessivi, i ruoli statici. Preferiva parlare di “idee”, “spazi”, “intuizione”. Un calcio quasi filosofico, in cui la libertà era centrale tanto quanto la disciplina.
Il suo approccio anticipava, per certi versi, ciò che oggi vediamo in allenatori come De Zerbi, Guardiola, Klopp: il calcio come movimento, come armonia, come creazione costante di superiorità, non solo numerica ma anche emotiva.
Eppure, negli anni ’90 e 2000, questa visione era troppo avanti. L’Italia chiedeva certezze, risultati, gestione del rischio. Galeone offriva emozioni, bellezza, sfrontatezza. Ha pagato il prezzo della sua coerenza, restando ai margini dell’élite, ma ha conquistato il cuore di chi il calcio lo vive come passione, non come algoritmo.

Oggi, con il senno di poi, molti si accorgono che Galeone è stato un precursore. Il suo calcio non è stato dimenticato. Vive nei suoi allievi, nei suoi ex giocatori, nei tifosi che ancora ricordano il Pescara anni ’80 come un’epifania. Vive in ogni squadra che decide di attaccare con coraggio, senza snaturarsi.
In un’intervista recente, Galeone disse: “Forse non ho vinto tanto, ma non ho mai tradito il mio modo di vedere il calcio. E questo, per me, è una vittoria”.
E forse aveva ragione. Perché nel calcio – come nella vita – ci sono trionfi che non si misurano con i trofei, ma con la bellezza che si lascia dietro. Giovanni Galeone è stato, e rimane, un poeta del pallone. Un rivoluzionario gentile. Un uomo che ha creduto nella libertà, anche su un campo da calcio.
Mario Bocchio