Due barricate opposte, come di più non avrebbero potuto essere: Giampiero Boniperti l’idea platonica dello stile Juve di qua, Gian Paolo Ormezzano, la quintessenza del tifoso granata di là. Eppure un’amicizia, vera, cominciata tra il giornalista in erba e il giocatore già affermato e durata sempre, suggellata anche in famiglia: “Abitavamo nello stesso isolato, ci parlavamo dai cortili”, raccontava Ormezzano, “diede il mio nome al suo primo figlio. L’unica cosa che gli rimprovero era di vantarsi di essere il capocannoniere dei derby, Juve-Toro, momento in cui la nostra amicizia si trasformava per novanta minuti in inimicizia feroce”.
Proprio la curva del Toro a Boniperti, ricambiata, non ne perdonava una: “Lo chiamavano Marisa, uno sfottò gratuito – leggenda vuole che a inventare il perfido soprannome sia stato Benito Lorenzi detto Veleno collega interista, ma non ci sono prove – soltanto perché era elegante e perbene, ma soprattutto perché era l’unico che in campo faceva una cosa da signorino: soffiarsi il naso in campo usando il fazzoletto. Tutto qui. Lui che pure aveva acrimonia nei confronti dei tifosi granata, invece amava come simbolo, anche se non gli voleva bene, il grande Torino: aveva un’enorme stima di Valentino Mazzola, lo definiva il giocatore più utile per qualsiasi squadra. Boniperti era del partito di Gianni Agnelli, che parteggiava per lui, mentre Umberto Agnelli, come anche l’allenatore Cesarini, gli preferiva Omar Sivori”. Il suo opposto, l’angelo dalla faccia sporca.
Gian Paolo Ormezzano ha fatto in tempo a vederlo giocare a lungo: “Potrebbe sembrare una contraddizione, ma credo che Boniperti da un lato avrebbe potuto dare ancora di più, e che dall’altro sia stato in parte sopravvalutato: ha avuto subito le stimmate del fenomeno, biondo, bel ragazzo, elegante, subito capace di segnare tanti gol. Sarebbe potuto diventare uno dei più grandi di tutti i tempi se non avesse avuto questa immediata consacrazione che lo ha confinato per troppi anni al solo ruolo di cannoniere, mentre era anche un grandissimo giocatore di centrocampo, sia verso l’attacco sia verso la difesa. L’ha un po’ tradito la sua apparenza gentile, se fosse stato un po’ più ‘cattivo’ sarebbe diventato un giocatore globale, temuto dagli avversari, invece gliele davano di santa ragione in campo, benché Parola cercasse di proteggerlo. Fosse stato un po’ meno perbene, contro chi gli preferiva Sivori, contro la Nazionale che gli dava ruoli non da leader avrebbe potuto raccogliere ancora di più. Allora sarebbe diventato non solo un giocatore in possesso di numeri classici ma anche un calciatore di una completezza rara in ogni tempo, anche se devo dire con dispiacere, che la grinta che gli auguravo la tirava, sempre, fuori proprio contro il mio Toro”.
Del dirigente, vagamente snob o solo troppo ansioso che aveva il vezzo di lasciare lo stadio a metà partita, Ormezzano dice: “Sapeva essere spietato, al limite dell’avarizia. Era nata per quello la leggenda, divertente ma falsa, della mucca. Era figlio di agricoltori benestanti ed era corsa la voce che nel suo primo contratto, firmato con Gianni Agnelli, ci fosse anche una mucca per ogni gol e che lui la volesse sempre gravida. Niente di vero. Ai giocatori diceva sempre che erano stati fortunati, che lo sport era una garanzia di salute e usava la propria forma fisica anche a settant’anni per darne la prova. È stato un dirigente all’antica, voleva l’ultima parola. Per questo ha cominciato a sentirsi a disagio quando sono apparsi i primi procuratori, aveva avuto screzi piuttosto duri con Platini per via del suo procuratore. Credo che quando ha visto gli agenti cominciare a fare il bello e il cattivo tempo nel calcio, vincolando i giocatori fin dalla culla, abbia capito che era finita la sua stagione da dirigente”.