Dura ma esaltante l’esistenza del tifoso dell’Ascoli
Dic 18, 2024

Da queste parti ci siamo abituati. Siamo nel settembre 2012. Sono anni, ormai, che non cominciamo il campionato con zero punti come la maggior parte dei diligenti partecipanti alla serie B. Anzi, quest’estate abbiamo anche esultato quando ci hanno comunicato che saremmo partiti soltanto da -1. I più entusiasti – quelli che vanno in tribuna coperta per mangiare al buffet dell’intervallo o in curva per cantare con le spalle al campo –, al bar già sognavano in grande: “E allora puntiamo ai play off”. “Praticamente siamo già in serie A”, “Non ci ferma nessuno”, e via delirando. Facili entusiasmi.

Rozzi con gli insepaerabili calzini

Insomma, come ha analizzato “Lacrime di Borghetti”, quando vivi una vita di miserie e ingiustizie, la volta che te la cavi con un ceffone solo pensi di essere a un passo dalla svolta. Meno male che al bar c’è chi le cose se le ricorda, chi frequenta i distinti e guarda la partita, chi tira avanti vergognandosi del fatto di rimpiangere attaccanti del calibro di Marco Bernacci.

Marco Bernacci

Sì, Marco Bernacci. “Vuol dire – dissero i cinici guardando il fondo del bicchiere di Campari vuoto – che quest’anno possiamo perdere due partite in più del solito”. È dura l’esistenza del tifoso dell’Ascoli. “La regina delle Marche”, titolo nobiliare che sa di muffa più che di aristocrazia. Noi sì, noi siamo quelli che mandarono via Bierhoff perché era grasso.

E il buon Oliver vinse gli Europei facendone due in finale alla Repubblica Ceca, poi fece più gol di Ronaldo in campionato, poi andò al Milan e vinse lo scudetto. Quello lì, il ciccione tedesco. Noi che una volta l’anno ci mettiamo i calzini rossi per ricordare il più grande filosofo analfabeta (è un complimento, davvero) che la storia ricordi, Costantino Rozzi. Noi che ogni anno ci dobbiamo inventare una squadra, che il nostro capitano si chiama Di Donato e in campo non lo riconosce mai nessuno. Noi che abbiamo dato i natali calcistici a Mazzone, e lo evochiamo in panchina ogni volta che perdiamo tre partite di seguito (e non succede così di rado). Anche oggi che Carletto ha superato gli Ottanta.

Carletto Mazzone

Noi che siamo un po’ scemi, un po’ sfigati e un po’ fortunati della fortuna che bacia a volte solo gli sfigati più sfigati. Era il 28 agosto del 2005 quando l’Ascoli – appena ripescato in serie A per una clamorosa serie di coincidenze – si apprestava a ospitare il Milan di Ancelotti, quello con Kakà, Shevchenko, Seedorf e via discorrendo. La squadra era stata assemblata in un quarto d’ora, visto che fino a due settimane prima di questa partita eravamo in serie B. Così, un Foggia di qua, un Ferrante in saldo, uno Bjelanovic preso in prestito, un tale chiamato Quagliarella, un vecchio marpione come Adani, qualche giovane di incerte speranze. Il massacro era annunciato.

Daniele Di Donato, capitano bianconero

“Se non ce ne fanno più di tre, è un successo”, dicevano al bar quelli che ne hanno viste tante e quell’anno rimpiangevano Colacone e Bucchi. Andò che il cielo butto giù un diluvio universale e il Milan s’impantanò. Anzi, all’inizio del secondo tempo a buttarla dentro fu Mirko Cudini, uno che in serie B faceva la panchina. Dio benedica la pioggia, la marcatura strettissima di Lauro (chi?) su Kakà e Nelson Dida, che tanta gente ha reso felice durante la sua carriera. Poi, vabè, Shevchenko pareggiò con un tiraccio da fuori, ma quell’uno a uno ebbe lo stesso effetto di un’apparizione della Madonna. L’armata Brancaleone che ferma l’aviazione americana. Per non citare il solito Davide che stende Golia. Qualcosa del genere, comunque. Quell’anno lì, poi, andò tutto bene: ci salvammo con largo anticipo e giochicchiavamo un discreto calcio. È per questo che ad Ascoli il nome di Marco Giampaolo fa ancora scaldare i cuori.

L’anno dopo, ovviamente, tornammo nell’inferno da cui provenivamo, senza nemmeno lottare troppo. Tesser prima e Sonetti dopo non riuscirono a salvare una squadra la cui difesa si reggeva su Nastase e Pecorari. Da lì, cominciò il nostro valzer: meno cinque, meno sei, meno sette, meno due… Si parte sempre in apnea, si arriva a novembre in fondo alla classifica – staccatissimi da tutto e da tutti, in coma profondo, senza possibilità di risveglio –, poi si cambia allenatore, si continua a perdere per un po’ e alla fine si attacca a vincere. I biscotti di maggio fanno il resto: è salvezza. Passano tre mesi d’estate e si ricomincia, penalizzazione, novembre da schifo, cambio di allenatore, rimontona, biscotti, salvi.

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