La mente pensante della squadra. Il cuore pulsante del centrocampo più forte d’Italia, oltre che l’ispiratore della strepitosa coppia d’attacco Riva-Gori. Metronomo e assist-man, imprescindibile bussola del dream team di Manlio Scopigno e “deus ex machina” dell’ultimo passaggio, grazie alla sua tecnica cristallina e alla sua invidiabile visione di gioco.
Oltre che per le mani di Albertosi, per i gol di Riva, per le fughe di Domenghini e per le diagonali difensive di Martiradonna, lo Scudetto del Cagliari è passato per le invenzioni di Ricciotti Greatti. Giunto in rossoblù – nel 1963 – dalla Reggiana, ha vissuto nove indimenticabili stagioni in Sardegna, ottenendo una promozione in serie A e, soprattutto, rivestendo un ruolo chiave nella travolgente ascesa al paradiso dei Giganti, che nel 1970 hanno marchiato a fuoco l’albo d’oro del campionato italiano col primo titolo conseguito da una squadra del Sud.
Ricciotti, dopo la gloria in maglia rossoblù, si è stabilito definitivamente a Cagliari, dove “si vive bene e in serenità, circondati dall’affetto e dalla stima della gente che continua a ringraziarci e a portarci in trionfo per quel mitico Scudetto”.
Ricciotti, come racchiudere in poche righe il racconto di ben nove anni spesi con la maglia dei quattro mori, tra exploit e vittorie indimenticabili?
“In effetti nove anni sono tanti: praticamente una vita per un calciatore! Arrivai a Cagliari nel 1963 assieme a Gigi Riva. Fu molto bravo nell’occasione Arrica, un talent scout estremamente abile che ci portò nell’Isola, in serie B. Fummo promossi subito in serie A e da lì iniziò il nostro cammino glorioso. Siamo tuttora molto fieri – e molto gelosi – del nostro passato. Eravamo uno squadrone, che praticava un calcio fantastico e non aveva paura di nessuno, tantomeno delle grandi squadre. Anzi, le grandi squadre qui in Sardegna hanno sempre abbassato la cresta. Con educazione e rispetto – personalmente non ho mai litigato con nessuno – ma quando eravamo in giornata per gli avversari c’era poco da fare. Che dire? Tempi bellissimi, che purtroppo non torneranno più. Oggi le cose sono cambiate: pensi che io non vado mai allo stadio perché altrimenti sto male, nel senso che mi agito nel vedere le partite del Cagliari attuale. Ebbi a che fare con Ranieri in occasione della sua prima esperienza a Cagliari, alla fine degli anni Ottanta.
Greatti nel Palermo (a sinistra) e nella Reggiana
All’epoca ero, diciamo, uno ‘pseudo-dirigente’: accompagnai fianco a fianco Ranieri per i primi sei mesi e poi, una volta resomi conto del fatto che era davvero l’uomo giusto, mi ritirai e lo lasciai fare, limitandomi a tifare Cagliari dall’esterno. Era il periodo degli Orrù: il tecnico romano riuscì a rendere competitiva una squadra che, prima del suo arrivo, competitiva non era. In tanti scudettati siamo rimasti nell’Isola perché qui viviamo bene e, soprattutto, abbiamo il rispetto della gente. La Sardegna è diventata la nostra casa. Però lo ribadisco: io allo stadio non ci vado. Mi prende male. Tutti i lunedì mattina viene in ufficio Tomas (Giuseppe Tomasini, libero titolare del Cagliari dello Scudetto prima dell’infortunio che lo colpì; venne poi sostituito nel ruolo da Pierluigi Cera, NdR) e mi racconta la partita del giorno prima: lui va sempre al campo, segue tutto con grande attenzione. E lo stesso fa Adriano Reginato”,
La faccio una domanda che richiede una risposta molto sincera: quel Cagliari leggendario era davvero così dipendente da Gigi Riva da farsi schiantare 3-0 a Madrid dall’Atlético, nel ritorno dei sedicesimi di finale di Coppa dei Campioni, pochi giorni dopo il grave infortunio subito da Rombo di Tuono? O quella dolorosissima sconfitta, al di là dell’assenza di Riva, dipese anche da fattori psicologici, oltre che tecnici? L’Atletico, sulla carta, non pareva così superiore a voi.
“Questa è una bella domanda. Il nostro Cagliari era pieno di giocatori fortissimi. Dal partner d’attacco di Riva, Bobo Gori – morto poco più di un anno fa – a Domenghini, un fenomeno nel suo ruolo di ala tornante. Da Nené a tutta la difesa, compreso il portiere. Però Gigi era il nostro punto di riferimento: in quell’occasione perdemmo il principale finalizzatore del lavoro di tutta la squadra, lasciando Bobo e Domenghini da soli là davanti. Ma fu anche un problema di inesperienza: non eravamo abituati a giocare quel tipo di partite. Se la gara del Vicente Calderón l’avessimo rigiocata una seconda volta, forti dell’esperienza precedente, non l’avremmo assolutamente persa 3-0. Questo è poco ma sicuro. Il Cagliari dello Scudetto era una grande squadra perfino a prescindere da Riva. Un gioiellino di squadra, mi sento di dire. Certo che adesso il tempo passa, e piano piano il nostro gruppo leggendario si sta sfaldando. Qualcuno purtroppo non c’è più, qualcuno non sta benissimo. Ma noi guardiamo avanti, senza mai dimenticarci di guardare indietro: l’ho detto, del nostro passato siamo straordinariamente orgogliosi”.
Il Cagliari del Tricolore tra l’altro è stato spesso dipinto – nella narrazione giornalistica e popolare – come una squadra difensivamente impenetrabile. Il che senz’altro corrisponde a verità, dato che detiene ancora il record di minor numero di reti subite – appena 11 – in un campionato di serie A. Ma in realtà il dream team di Scopigno era spumeggiante anche dalla cintola in su: non era certo una formazione che giocava in contropiede o speculava sull’avversario…
“Ma che, stiamo scherzando? Noi imponevamo il nostro gioco. Sapeste quante volte Ricky Albertosi, dalla porta, ci diceva: ‘O bucaioli, guardate che ci sono anch’io in campo!’. E noi gli passavamo la palla, per non farlo sentire tagliato fuori dal gioco. Dirò di più: un centrocampo e un attacco come il nostro, in tutta franchezza, non li ho mai più visti in nessun’altra squadra di calcio”.